l'editoriale
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30 Giugno 2022 - 08:31
«Chiamatemi Smaïl». Sì, non si può non iniziare questo articolo se non dall’incipit del romanzo, che echeggia Moby Dick perché è prima di tutto un’avventura, «alla ricerca della balena bianca» scrive Paul Smaïl, autore e narratore in prima persona, alla ricerca di una vita dove non ci sia «qualcuno meno negro di me». Perché Paul è laureato in lettere comparate, è francese, con un padre che è stato orgoglioso operaio delle ferrovie e un nonno morto per l’esercito francese. Ma per chi guarda, Paul è soprattutto marocchino, quindi non valgono la bella cravatta o le scarpe lucide, o presentarsi pronunciando il suo cognome senza la dieresi. E non vale neppure tingersi i capelli come fa suo fratello Daniel. E così, Paul consegna le pizze e lavora in un albergo a ore, mentre Daniel si gonfia tra palestra e steroidi e fa peep show.
“Vivere mi uccide” (Minimum fax, 16 euro, traduzione di Lorenza Pieri) è la storia dei due fratelli, che parte della morte di Daniel. E’ una storia che sa di rabbia, di ricerca di un posto nel mondo, di boxe per difendersi dai bulli inizialmente e per affrontare le proprie ombre dopo. Un romanzo duro, che arriva per la prima volta in Italia, ma con uno scandalo segreto alle spalle: Paul Smaïl non esiste, era lo pseudonimo, l’ennesimo, di un geniale scrittore francese morto suicida nel 2013, Jack-Alain Léger, bianco. Oggi, si direbbe che Léger ha fatto una sorta di «appropriazione culturale», lo si accuserebbe di un facile sensazionalismo. Ma il personaggio Léger, nato Daniel Theron, era ben altro: è stato un oscuro demone goticheggiante di nome Melmoth per un romanzo a tinte lugubri, è stato Dashiell Hedayat, musicista mistico che ha dato alle stampe anche un album rock che ha avuto una certa risonanza... Dai suoi libri sono stati tratti dei film, “Il monsignore” e questo, per esempio. Ma la sua figura, profondamente rispettata in Francia nonostante il suo essere maledettamente contro tutto e in contrasto con il “sistema” - da quello letterario a quello sociale, a se stesso forse - fino all’autosabotaggio. Come altri romanzi sono sue biografie mascherate, sui temi dell’omosessualità mascherata, qui è un romanziere che si spinge ad annullarsi nel suo stesso personaggio, estremizzando Melville stesso: la sua denuncia sociale non è di maniera, né il suo intento è di dare voce a chi nel caso non glielo aveva neppure chiesto... La letteratura è sangue e dolore e la rabbia diventa rappresentazione. E poi, su questo, in fondo si smaschera da solo quando a Paul fa dire, in faccia alla libraia per cui lavora che gli offre sempre libri di autori stranieri, «perché i negri dovrebbero leggere solo i libri dei negri, secondo lei? Proust è solamente per i froci, allora? E Melville, anche? E Virginia Woolf, per le lesbiche? Un arabo non ha sentimenti, emozioni, passioni? Se siamo come voi per tutto il resto, vi assomiglieremo anche in questo: ci vendicheremo». Spiegate le vele, Moby Dick soffia.
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