l'editoriale
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02 Febbraio 2023 - 08:34
E alla fine, un bianco aveva ucciso un nero - o forse il nero aveva ucciso il bianco, chissà - ma il fatto è che erano la stessa persona. L’epifania, nella sua logica semplicità, è quasi all’inizio della narrazione, come una verità ovvia. E non è un caso che, praticamente dopo quel momento, Anders cominci ad accettare quel che gli è successo: ossia di svegliarsi una mattina e scoprire di essere diventato nero, o per meglio dire marrone.
Non potrebbe essere più bello e dichiarato così il richiamo a Kafka, al suo Gregor Samsa che si sveglia trasformato in uno scarafaggio, di Mohsin Hamid nel suo romanzo “L’ultimo uomo bianco” (Einaudi, 16 euro, traduzione di Norman Gobetti). Con la differenza che la metamorfosi di Samsa è il dramma incomprensibile, quella di Anders è il cambiamento globale a dispetto di tutto.
Sì, perché dopo aver superato il momento di sconforto e di rabbia - confessa subito di voler uccidere l’uomo scuro che lo guarda dallo specchio, convinto che gli abbia portato via qualcosa -, Anders scopre che sta succedendo a sempre più persone in città, poi nel mondo. Quell’omicidio - o suicidio - è per l’appunto l’epifania.
Sconvolto all’idea di uscire in strada, Anders si rivolge a Oona, insegnante di yoga e occasionale amante: lei non crede ai suoi occhi, nel vederlo, ma deve ammettere che anche se diverso, quell’uomo è sempre Anders. E non è questione di voce, di struttura... È l’essere in sé. D’altra parte, più avanti toccherà anche a lei, ma non sarà uno shock, come se avesse sempre saputo che sarebbe accaduto. Anche se poi lei stessa si spaventerà nel trovarsi «una persona scura nella stanza».
Difficile da accettare, quel che accade, per il resto della collettività: violenze, omicidi, aggressioni, persino milizie bianche che pattugliano i quartieri, almeno finché possono perché sono sempre di meno, tanto che ti chiedi se a quel punto si sparino tra di loro. Il bel romanzo di Hamid, con quella sua narrazione così rotonda, in alcuni tratti quasi cantilenante - con i suoi scenari che a tratti ricordano la lezione paradossale del Ballard di “Sogno Spa” -, è una apocalisse desiderabile, per parafrasare quanto detto da lui stesso in una recente intervista: «Noi narratori di storie dobbiamo descrivere un futuro desiderabile. In “Exit West”, la migrazione diventa globale, e in questo tutti diventano scuri. Questi romanzi si chiedono: davvero il futuro è un’apocalisse? E se fossimo tutti migranti e tutti marroni? Che male ci sarebbe?».
Già, che male ci sarebbe? Davvero sarebbe un trauma per una comunità che è a tutti gli effetti multietnica? Curiosamente, Hamid non dà delle coordinate di luogo, anche se per certe cose a molti può sembrare che la narrazione sia in America. E se fosse la democratica aperta Svezia, invece? E anche nel momento in cui si è scuri, la paura non sparisce, anzi i complottisti vedranno in questo una minaccia dei veri scuri, ossia quelli che non si sono trasformati. Mentre «l’ultimo uomo bianco», l’unico che ha capito, viene sepolto in un cimitero di periferia.
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