l'editoriale
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04 Luglio 2021 - 07:53
Due mappamondi antichi si contendono a fatica il pianale della vecchia radio a valvole. Come fanno pipe, accendini e scatole di tabacco, sparpagliate per la scrivania su cui Giovanni Di Perri appoggia il gomito e si fa meditabondo. «Perché ho fatto l’infettivologo? Mio papà Tullio…». Basta questo ricordo che si lega stretto all’attualità, dopo quest’anno e mezzo passato in prima linea contro il Covid, perché l’infettivologo che ha combattuto Hiv, Ebola e Sars in giro per tre quarti del globo, sbottoni il camice del professionista, svelando l’uomo. Che, sì, davanti al virus ammette d’aver temuto di lasciarci la pelle.
Professor Di Perri. Ora che abbiamo un piede fuori dall’incubo, ricorda come è iniziato? «Ricordo il primo paziente che ci portarono. Quasi asintomatico, sembrava meno di un’influenza ma era Covid. Il 22 febbraio 2020. Un uomo di 40 anni che lavorava a Milano. E questo dimostra che lo ereditammo dalla Lombardia. Oggi un caso del genere non lo ricovereremmo, starebbe a casa»
Vi è mai venuto il sospetto per precedenti polmoniti atipiche? «Il virus non era presente da tanto tempo. Avevamo i campioni di febbraio, quando ormai lo aspettavamo e girava già in Germania. Casi di gravità bassa o lieve, ma poi in dieci giorni ha intasato gli ospedali, con la stessa forza dell’alluvione»
Quando ha riconosciuto il “nemico” che sussulto ha avuto? «L’ho riconosciuto seguendo l’evoluzione cinese del contagio e mi sono accorto che la dinamica di crescita era esponenziale, molto rapida. Mi venne in mente una simulazione epidemica che feci a Londra, quando ero solo un giovane medico. Intuii, allora, che poteva e doveva essere qualcosa di molto semplice. Cosa se non la condivisione del respiro? Ho avuto drammaticamente ragione»
Ad altri non era chiaro? «Diciamo che alcune autorità, anche italiane, con una buona fede da mettere in discussione, si limitavano a consigliare di lavarsi le mani dato che mancavano le mascherine...»
Un’accusa pesante. Si spieghi meglio... «È strano che organismi di riferimento come l’Oms, che tali restano su grandi temi, in questo ambito non avessero alcun esperto e abbiano mandato avanti personaggi che ne dicevano prima una, poi l’altra, non azzeccandole nemmanco di striscio»
Mi fa un esempio? «Sono arrivati a dire che la malattia non si trasmetteva per via aerea o che gli asintomatici non contagiavano. Sono cose che dette da un ubriaco hanno un effetto, dette dall’Oms ne hanno un altro e costano vite»
Il Covid nasconde tanti misteri, a partire da come è nato... «Non ci sono dubbi che il virus abbia circolato prima in Cina e che abbiano tardato a segnalarlo. Quello che non sappiamo è come sia cominciato tutto»
Secondo lei come è andata? «Beh, questo virus ha l’identità del Coronavirus veicolato dal pipistrello e ci si è chiesti se possa essere passato da un piccolo ospite intermedio, come il pangolino. Ma come sarebbe possibile escludere il fatto che possa essere “scappato” da un laboratorio di Wuhan per un incidente o, come qualcuno suggerisce, nella forma d’un mosaico di diversi virus?».
E lei per cosa propende? «La coincidenza della presenza di quel laboratorio proprio a Wuhan, dove in effetti hanno lavorato più di altri sul Coronavirus a partire dalla prima Sars del 2003, colpisce abbastanza. Che possa essere stato un ricercatore, uscendo di lì, ad aver infettato la propria famiglia, dando così inizio alla catena, è un’ipotesi che ci sta».
Sembra un romanzo... «Può apparire così. A Wuhan hanno lavorato e lavorano sui pipistrelli, contenitore ancestrale dei Coronavirus. L’ipotesi gira intorno a questo tipo di possibilità, ma Dio solo lo sa. Con la prima Sars eravamo nel Wenzhou con lo zibetto, mangiato perché ha carni dolci e gradite ai cinesi. E vuole saperne una di più? Lo mangiavano proprio perché ritenevano portasse a una difesa maggiori contro le infezioni respiratorie»
Parliamo di vaccini. Perché tanta confusione su AstraZeneca? «Sulla natura e la qualità degli studi fatti da AstraZeneca a Oxford, sul progetto e sul reclutamento, persino sugli errori marchiani compiuti nel corso delle sperimentazioni, bisogna dire che è stato difficile stare dietro alle informazioni mantenendo un equilibrio verbale e emotivo. Hanno fatto un terremoto di errori per cui se li avessimo fatti noi in Italia ci avrebbero seppelliti. Una prestazione vergognosa. Pfizer e Moderna sono stati impeccabili da questo punto di vista»
È stato giusto bloccare Az? «Nella misura in cui disponiamo di altri vaccini. Perché se fosse stato l’unico avremmo continuato a farlo a tutti. È un problema di rischio relativo, perché il rischio di trombosi atipiche è molto basso».
Ora verso cosa punta la ricerca? «Ci sarà un revival di vaccini proteici, che agiranno in maniera più gentile sul nostro sistema immunitario»
Il richiamo sarà annuale? «Annuale o biennale in strati di età a rischio, ma si vedrà»
Dovremmo abituarci? «Ho l’impressione di sì, anche se non possiamo aver certezze. Avremo persone che si ammaleranno ancora gravemente».
La quarta ondata in autunno? «Di cosa? Una nuova variante che supera l’immunizzazione? Secondo me non ci sarà granché. Magari una circolazione subendemica, con un’epidemia qui e una là: tra studenti non vaccinati, qualche No Vax ma non grandi numeri…»
A proposito di No Vax, ha mai ricevuto minacce? «No perché non sono sui social network e risulto difficilmente attaccabile, ma nei commenti alle mie interviste qualche volta me le hanno anche giurate. Solo una volta, tornando tardi a casa mentre uscivo da un parcheggio, devono avermi riconosciuto e mi hanno urlato qualcosa: mi sono voltato ed è finita lì»
Ha avuto paura? «Difficile farmi paura, sa? Sono grosso di stazza e se picchio, picchio duro».
Nemmeno del Covid? «Ho perso amici e mi ha fatto male vedere soffrire colleghi anche più giovani di me. All’inizio, sì, le dico: ho avuto paura di morire e anche di non essere all’altezza. Poi abbiamo preso la misura e abbiamo cominciato a lottare per le mascherine riuscendo ad averle subito mentre sembravano ancora una chimera».
Cosa è stato vincente? «Quanto siamo riusciti a creare fin dal primo giorno come squadra insieme con Carlo Picco, che è oggi il direttore dell’Asl Città di Torino. Qualcosa che si determina dallo spirito di servizio e dall’orgoglio di essere in prima linea, essere compagine per la sopravvivenza della nostra società. E poi la grande solidarietà ricevuta, specie nella prima ora, con gesti di affetto straordinari anche dai privati quando mancavano le difese. Poi, come tutte le cose, si articolano e cambiano, ma è stata una esperienza che mi lasciano tracce di grande benevolenza».
Cosa intende? «Che ora siamo in un’altra fase ed è quella delle denunce. Quella delle rivendicazioni da parte di “avvocaticchi” in cerca di gloria. Ma fa parte della nostra società, abbiamo educato generazioni alla sindrome da risarcimento»
Avete ricevuto denunce? «Più che a noi, stanno arrivando in giro, sono un fenomeno abbastanza generale. Dopo la fase degli “eroi” le cose sono un po’ cambiate e quel civismo per cui “andrà tutto bene”…»
Senta un po’, scriverà un libro? «No, per carità! A meno che non me lo scriva qualcun altro. Nel nostro mestiere, io lavoro in università, ci danno un punteggio perché facciamo ricerca. E poi se dovessi dirle cosa penso su quanti hanno tempo di scrivere libri poi sarei costretto a chiederle di non virgolettarlo»
Quale è stato il grande errore dell’Italia nella pandemia? «Non reclutare le competenze giuste e ritenere che anche un fenomeno tragico come questo fosse un fenomeno cavalcabile politicamente»
Ovvero? «Quanto è successo con Monti, ai tempi, ora sta succedendo con Draghi»
Dai politici si è passata la palla ai tecnici… «Si potevano evitare contraddizioni e si possono ancora evitare. Le faccio un esempio, da novembre ripeto che si potevano far ripartire alcune attività che ora riprendono senza prevedere il “green pass” o tamponi rapidi. Prenda i ristoranti: all’interno si dovrebbero avere garanzie maggiori come in Irlanda su chi è stato vaccinato e chi no. Ora si discute delle discoteche, ma ripeto che bisogna seguire una precisa ortodossia o altrimenti non stiamo in piedi»
Parliamo di lei. Quando ha scelto di fare l’infettivologo? «Sono figlio d’arte. Papà Tullio era medico a Siena. E quando si trattò di scegliere mi disse: “Ci sarà un grande ritorno delle malattie infettive”. E da lì è partita quell’iniziale attrazione per i malanni tropicali che mi ha portato in Africa in Burundi ma anche in Thailandia e Malesia. Un atteggiamento giovanile, una passione premiata dai risultati della ricerca nel contrastare malattie come l’Hiv».
Suo papà è stato profetico? «Sì. È stato ed è il mio riferimento sempre. Perché era un grande uomo di cultura enciclopedica»
Perché ha scelto Torino? «Amo questo città, anche se ci sono capitato per caso dopo aver vinto la cattedra molto giovane, a 41 anni, nel 1999. Qui ho trovato riservatezza e la sobrietà con cui mi piace vivere. La posizione geografica è perfetta, una città grande ma a misura d’uomo, anche se...»
Anche se? «Soffre i mali del resto d’Italia. Potrebbe essere girata in bicicletta ma legata al palo una bici non dura venti minuti: troppa insicurezza. Detto ciò, abbiamo istituzioni di livello internazionale, come l’Università per cui lavoro e il Politecnico»
E non l’ha vista peggiorare? «L’ho conosciuta già un po’ decadente anche se dopo le Olimpiadi la ripresa c’è stata»
E ora? «C’è solo il potenziale, mancano fatti concreti»
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