L’argomento del giorno dell’estate 1850, a Torino, fu la negazione dell’estrema unzione al conte Pietro Derossi di Santarosa. Il nobiluomo si era visto negare l’estrema unzione, poiché il padre servita Bonfiglio Pittavino, chiamato al capezzale del moribondo, aveva espresso il suo diniego: no, non avrebbe impartito l’ultimo sacramento ad un uomo che aveva votato le leggi Siccardi, considerate un atto di guerra del governo piemontese alla Chiesa cattolica. Tanto più che Santarosa non era un politico qualsiasi: era l’ex ministro dei lavori pubblici del regno di Sardegna.
Gravemente ammalato, Pietro De Rossi (cugino del più noto Santorre di Santarosa, il patriota morto in Grecia durante i moti di indipendenza ellenici) fece chiamare un sacerdote per raccomandare l’anima a Dio: ma Bonfiglio Pittavino, parroco della vicina chiesa di San Carlo, si rifiutò di impartire l’unzione degli infermi finché l’ex ministro non avesse ammesso il proprio errore, ritrattando il suo appoggio alle leggi anticlericali. Santarosa aveva convintamente dato il proprio appoggio alle leggi Siccardi e non ritrattò la sua posizione; in tutta risposta, Pittavino incrociò le braccia e disse che non gli era consentito andare oltre: non avrebbe impartito l’estrema unzione, ed infatti l’ex ministro morì senza viatico, il 5 agosto 1850.
Si può ben immaginare che questo episodio, che sarebbe dovuto rimaner confinato nella sfera privata, immediatamente fu di dominio pubblico: Pietro Derossi di Santarosa era un uomo che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’esecutivo piemontese e la questione della sua morte tenne banco per giorni, anche perché l’arcivescovo di Torino, l’energico Luigi Fransoni, venuto a conoscenza della morte impenitente del Santarosa gli negò i funerali religiosi. I giornalisti anticlericali, i quali erano notoriamente indifferenti ai sacramenti, gridarono allo scandalo: la Chiesa doveva concedere i funerali al ministro. Fransoni rispose che la Chiesa era la Chiesa e non accettava pressioni dalla politica: accompagnare le anime a Dio spettava ai sacerdoti e non a giornalisti o politici.
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Apriti cielo: poiché già allora la politica si faceva a suon di articoli di giornale, le testate più progressiste minacciarono manifestazioni di piazza e dimostrazioni davanti alle chiese. Alla fine lo stesso arcivescovo, per metter fine a quel vero e proprio vespaio, fu costretto a concedere la celebrazione delle esequie. A quel punto, furono i cattolici ad insorgere, dichiarando che la politica intendeva piegare la Chiesa torinese al suo volere. Alla fine, l’azione del governo fu drastica: ufficialmente per strappare l’arcivescovo dalla furia popolare, Fransoni fu incarcerato e rinchiuso a Fenestrelle. Più tardi, fu esiliato in Francia.
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