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Vini della memoria

vino bottiglie Depositphotos

(Depositphotos)

Nel libro “Primitivo, il vino dei due mondi” di Costacurta e Calò (Kellermann edit.) sono elencate le piaghe storiche dell’enologia: le invasioni dei barbari e dei saraceni, la grande gelata del 1234, la peste del 1348, i bruchi del 1504, i dazi francesi del 1887, e poi la fillossera, il marciume, le crittogame, e (ricorrente in tutti i secoli) la siccità. A queste piaghe naturali gli autori ne aggiungono altre “artificiali” e recenti come la barrique, la vendemmia tardiva (degna di palati antichi o asiatici) e le razzie delle cantine del sud da parte dei grandi gruppi del centro-nord. Sono d’accordo su tutte, specie sulla barrique, che aborro. Per me barricare il vino è come correggere un caffè cattivo col cognac per renderlo accettabile. Ma c’è una piaga – enorme – che il libro dimentica, anche perché è legata alla memoria: il gusto internazionale. E’ quella cornice di precisi sapori e gradazioni entro la quale i vini ‘devono’ essere allevati dagli enologi per rispondere alla domanda (omologata) delle masse. Io l’ho capito nella Sardegna degli anni ’70, quando ancora si trovavano facilmente vini locali fatti negli stazzi con uve antiche coltivate a terra. Tra i solchi gli acini si ubriacavano di sole e di calore riflesso, impregnandosi degli umori e dei profumi della macchia mediterranea. Vini spessi, fortissimi (fino a 19 gradi), olenti d’aia, quasi liquorosi. Sono scomparsi (come i loro fratelli siciliani e pugliesi) perché “invendibili” sui grandi mercati. Il “gusto internazionale” non li gradiva. E così li abbiamo persi come i caci al profumo di stalla fatti in alpeggio senza acciaio inox e piastrelle. Io ce l’ho ancora fatta, a gustarli. Voi andate pure al Vinitaly.

collino@cronacaqui.it
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