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La festa dei canti spontanei

microfono dp

Fonte: Depositphotos

E così sabato sono andato a Usseglio a cantare e ad ascoltare i canti spontanei. Una goduria. La differenza tra i canti spontanei da osteria e i cori pettinati con divisa e direttore l’ho già detta, ma mi piace ribadirla. Il canto spontaneo è un “cantare insieme” in cui i coristi si distribuiscono alla buona le parti, secondo le voci che hanno. Chi ha la voce bassa fa il basso, chi ce l’ha cristallina e potente fa la prima, chi è buono fa la seconda, e se gli regge l’ugola anche la seconda alta, detta anche terza. Ma siccome capita pure di cantare in una baraonda dalla quale non ci si può appartare, come tra la folla nel cortile dietro il municipio o nel salone della mensa dove abbiamo cenato tutti insieme, si devono spingere le voci “fuori giri” per riuscire a sentirsi nel brusìo generale e nella gara con altri cori che attaccano qua e là. Ed è spettacolo. Le vene del collo si gonfiano, le facce si arrossano, e i decibel sono fonte di applauso, non come nei cori da palco in cui la potenza d’emissione va domata e impastata. Facce da birra e da vino, con tanti ragazzi e ragazze a cantare, segnale caldo di speranza. Marino, seconda voce del Gruppo Emiliano (quello dei leggendari Titti e Maurizia) si era alzato alle 4 per mungere le vacche a Reggio, e poi aveva guidato 5 ore per raggiungere Usseglio. Tutti amici, tutti ridenti, tutti alla buona. I cori pettinati li devi ascoltare e bon. Lì invece ti puoi unire: sono poi gli sguardi dei coristi e del pubblico che ti costringono a tacere, se stoni. Come una volta in piòla. E dunque cori, e dunque stupe scolate mangiando pane, toma e salame di turgia mentre il sole, ridendo, calava dietro la Lera. Averne, di sabati così.

collino@cronacaqui.it
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