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Ecco come funzionavano le mazzette all'anagrafe

«50 euro il documento, 500 per la casa finta», così aiutavano i narcos

I retroscena dell'indagine nata da un traffico di sostanze stupefacenti

Mazzette all'anagrafe

Un'immagine della "cimice" messa dalla polizia

«Domani vado in Comune a fare la carta d’identità, grazie a un amico a cui bisogna dare qualcosa...». «C’è corruzione anche a Torino?». «Sì». Così Geront Dedja, albanese di 44 anni arrestato l’altro ieri e accusato di essere un narcotrafficante di spessore, spiegava al telefono a un’amica come funzionavano le pratiche burocratiche nella nostra città. L’uomo, che è finito in manette con altri quattro connazionali, è considerato un importatore di cocaina, in grado di fare arrivare nella nostra città anche 10 chili di sostanza alla volta dal Nord Europa.

Il pm Enrico Arnaldi Di Balme, che coordina la squadra mobile in questa indagine, nel 2019 lo stava intercettando. E da quelle telefonate, oltre al traffico di droga, è emerso un altro aspetto importante, sul quale ha indagato la pm Giulia Rizzo: un giro di “pratiche facili” e soprattutto veloci, dietro pagamento, all’ufficio dell’anagrafe di via Leoncavallo 19. Per avere la carta d’identità «in un solo giorno», superando tutte le code, bastava dare 50 euro a un’impiegata. Se oltre e con il documento si voleva anche una residenza fittizia, «possibilmente in grado di eludere i controlli della polizia municipale», c’è scritto nell’ordinanza della gip Mariafrancesca Abenavoli, ne servivano 500. Negli atti dell’indagine si menzionano anche «contratti di lavoro», forse inesistenti, e cifre che arriverebbero fino a 750 euro.


Sono tre le persone finite ai domiciliari per corruzione: una conoscente - per vie indirette - dei narcotrafficanti (Alina Capraru, difesa dall’avvocato Giovanni Passero), un’impiegata dell’anagrafe, (Morwenna Izzo, difesa da Simone Vallese) e una donna di origini marocchine (Milouda El Ouargui, assistita da Roberto Ariagno), che avrebbe un ruolo minore. L’impiegata avrebbe favorito la velocizzazione di alcune pratiche, con l’intermediazione delle altre due indagate, a beneficio di connazionali di queste ultime. «Vai in via Leoncavallo, ti trattano bene», era il “passaparola” che girava tra gli albanesi che transitavano in un autolavaggio di via Giachino che sarebbe stato, secondo i pm, acquistato da uno dei narcotrafficanti.


Capraru e Izzo si sarebbero conosciute per caso, perché anni fa Capraru, disperata perché aveva bisogno di aprire una partita Iva, si sarebbe rivolta all’impiegata per potere ottenere in tempi non biblici un documento. Dal 2019 i rapporti tra le due donne si sarebbero interrotti, forse anche perché con il Covid tutti gli uffici erano andati in tilt. Ieri, durante gli interrogatori di garanzia, i legali delle tre arrestate hanno fatto istanza per revocare le misure. Non avrebbe senso, secondo loro, sostenere che vi sia il pericolo di reiterazione del reato se tutti avrebbero smesso di fare pratiche dal 2019.


Oltre alle tre donne ai domiciliari, ci sono una decina di denunciati a piede libero per corruzione, tra cui i presunti “narcos”.
«Servono 500 e ti fa anche la residenza...», dice un’indagata al telefono, e aggiunge: «Devo chiamare quella della depilazione». Si fa poi cenno a una misteriosa donna, non menzionata, che possiederebbe molti alloggi in città. «Ha tante case...le usa per darti una residenza», si dicono gli intercettati. È solo uno degli aspetti su cui lavora la procura. Perché l’inchiesta, anche se iniziata anni fa, potrebbe ulteriormente allargarsi.

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