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Medio Oriente in fiamme
17 Giugno 2025 - 05:50
Il conflitto aperto che scuote il Medio Oriente: Gerusalemme colpisce l’apparato nucleare iraniano, Teheran reagisce con missili e droni mentre gli ayatollah stringono ancor di più il cappio sui diritti di donne, oppositori e comunità LGBT.
Nel cuore della notte di venerdì 13 giugno il cielo sopra Teheran è diventato un immenso lampo arancione. L’“Operazione Rising Lion” era finalmente uscita dai cassetti dello Stato maggiore israeliano: oltre duecento caccia hanno falciato una rete di 120 obiettivi, dai laboratori di Natanz ai depositi missilistici di Tabriz, in una sola, fulminea ondata. Lo choc iniziale si è trasformato in meridiani di fumo, sirene e panico: il quarto giorno di guerra è ora un fatto compiuto, con almeno 406 morti in Iran e 14 in Israele.
«Non è Israele che dichiara guerra agli altri – ammonisce il giornalista scrittore Pigi Battista in un’intervista a “Il Giornale”– sono gli altri che da settantasei anni tentano di cancellare Israele dalle mappe». L’intervista forse riecheggia nella sala stampa del Knesset mentre Tel Aviv difende l’unico spazio democratico di un’area dominata da autocrazie teocratiche. Davanti all’atomica in avvicinamento – un ordigno concepito non per deterrenza ma per annientamento – procrastinare avrebbe significato suicidio politico, strategico, esistenziale.
I numeri dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica spiegano l’urgenza: 408 chilogrammi di uranio al 60 %, quantità sufficiente, se ulteriormente raffinata, a produrre quasi dieci testate; un balzo di 133 kg soltanto dall’inizio dell’anno. Rising Lion non è un blitz improvvisato. È la sintesi di quindici anni di spionaggio, droni in miniatura lanciati dal Mossad dentro il perimetro di Fordow, deep fakes che hanno confuso la contraerea, micro-cariche piazzate sotto i camion che trasportavano centrifughe IR-6. Quattordici scienziati del programma nucleare, fra cui l’ex direttore dell’OEAI Fereydoun Abbasi, sono stati eliminati nelle prime ore; Hossein Salami, comandante dei Pasdaran, è caduto insieme al suo vice. La risposta di Teheran è arrivata in batterie di Fateh-110. Un ordigno ha squarciato un condominio di Petah Tikva, uccidendo tre civili; altri vettori si sono abbattuti su Tel Aviv e Haifa. Nonostante l’Iron Dome abbia intercettato la maggioranza dei 170 missili, la difesa non è impenetrabile: alcuni razzi hanno “bucato” la cupola, mentre in mare aperto la marina israeliana inaugurava il sistema Barak Magen, capace di neutralizzare otto droni iraniani in una sola notte.
Dall’altra parte del Golfo, gli ayatollah rispondono serrando le file: le famigerate “vans bianche” della polizia morale tornano nelle piazze, trascinando via ragazze col velo allentato; la tv di Stato ammonisce che «ogni donna è prima di tutto la dignità del martire». I numeri sono impietosi: 901 esecuzioni nel solo 2024, record assoluto dell’ultimo decennio secondo le Nazioni Unite; trentuno donne impiccate, spesso vittime di violenze intrafamiliari. Il procuratore ONU Javaid Rehman denuncia «un’esecuzione a catena travestita da legalità» e documenta torture sistematiche, abusi sessuali, arresti di attivisti e giornalisti. Il regime non risparmia nemmeno le minoranze sessuali: nel gennaio 2022 i ventinovenni Mehrdad Karimpou e Farid Mohammadi sono stati impiccati a Maragheh per “sodomia”, sollevati da una gru di cantiere davanti a centinaia di spettatori obbligati ad assistere. È l’immagine plastica di come l’Iran tratta ciò che definisce «devianza da estirpare». L’esecuzione è anche etnica: quasi metà dei prigionieri politici giustiziati fra il 2010 e il 2023 era curda; altre decine erano baluci o arabi. Amnesty parla di “binge” di impiccagioni usate come panacea per le crisi interne.
Eppure sotto le cupole dorate cresce la brace. L’8 giugno, scioperi di insegnanti, infermieri e pensionati hanno infiammato venti province; slogan contro la corruzione e il carovita hanno sostituito i tradizionali «Morte a Israele». Gli economisti avvertono che il rial ha sforato quota 830 000 per dollaro, segnale che persino la “guardia di ferro” dei Pasdaran fatica a reggere.
Intanto le milizie proxy – Hamas, Hezbollah, gli Houthi – arrancano: decimati i magazzini di razzi in Libano, svuotati i tunnel di Gaza, mentre Assad principale alleato dell’Iran ormai caduto, ha la colpa dell’erosione del territorio siriano da parte di Mosca e Teheran. Israele, paradossalmente, sta facendo il lavoro sporco anche per Riyadh, Abu Dhabi e Il Cairo, che pubblicamente condannano ma dietro le quinte tirano un sospiro di sollievo.
Resta il tallone d’Achille: Fordow. Seppellito sotto 80 metri di roccia, protetto da batterie S-300 e tunnel antiesplosione, il complesso richiederebbe le GBU-57/B “Massive Ordnance Penetrator”; Washington però tentenna. Senza quelle bombe da 14 tonnellate, la possibilità di distruggere il cuore del programma nucleare rimane teorica.
Si chiude allora il cerchio di Pigi Battista nella sua intervista: «La vera domanda non è quanto durerà il conflitto, ma se cadrà il regime degli ayatollah». Se l’Occidente saprà vedere oltre la propaganda che dipinge Israele come carnefice e ignora chi impicca i gay alle gru, la risposta potrebbe arrivare dalle stesse piazze iraniane che oggi bruciano dal desiderio di libertà. Nel frattempo, Gerusalemme combatte la battaglia di tutti noi, pagando in sangue il prezzo che l’Europa preferisce dimenticare.
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