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Opnioni & Commenti
17 Agosto 2025 - 12:50
C’è un filo che lega l’occidente progressista delle manifestazioni in favore della Palestina all’estrema sinistra dedita al boicottaggio delle squadre israeliane nello sport e i militanti delle varie organizzazioni estremiste pro-pal: la presunzione morale. Nel nome della difesa dei diritti dei più deboli, una parte consistente della stampa internazionale ha finito per assolvere preventivamente Hamas – organizzazione terroristica con migliaia di guerriglieri ancora attivi e oltre trentamila stipendiati che gestiscono scuole dell’odio, tunnel sotterranei e traffici criminali – trasformandola in folklore resistenziale.
Si parla con orrore dei bombardamenti di Tsahal su Gaza, si condannano le vittime civili, si invocano tribunali internazionali. Ma non si cita mai ciò che ha acceso la miccia: il massacro del 7 ottobre, gli stupri, la macelleria perpetrata nei kibbutz, le famiglie bruciate vive. Come se il mondo avesse deciso che le morti israeliane, a differenza di tutte le altre, non meritassero lutto né indignazione. Il cinismo di Hamasnon è un incidente di percorso, bensì strategia. Questa è l’organizzazione che sequestra gli aiuti alimentari, che usa i civili come scudi umani, che ruba le provviste destinate ai bambini per rivenderle sul mercato nero. Eppure, troppo spesso, ci viene rappresentata come l’unica voce del popolo oppresso, cancellando il fatto che il consenso di cui gode resta altissimo anche in Cisgiordania. Il punto è che – a differenza di Israele – Hamas non paga mai dazio davanti all’opinione pubblica: perché non è tenuta a rispettare alcuna norma internazionale, non ha un Parlamento da cui dipendere, non rappresenta una società aperta ma ne incarna l’esatto contrario, quella società chiusa legittimata dal culto della morte di cui scriveva Karl Popper.
Questo non significa che Israele sia esente da colpe. Ci sono episodi militari discutibili, alcuni esecrabili, raid eccessivi, errori sanguinosi. Ma l’asimmetria morale resta evidente: Tel Aviv è una democrazia imperfetta, con libertà di stampa, diritti delle donne, comunità LGBTQ+. Hamas è un’organizzazione jihadista che celebra la morte come rito di passaggio. In questo scontro tra mondi, una parte dell’occidente sceglie paradossalmente di processare chi condivide i suoi valori democratici e di trasformare in vittima sacrificale chi quegli stessi valori li vuole distruggere. Tra i paradossi contemporanei, come già accennato, c’è anche il ritorno del boicottaggio sportivo. Alcune federazioni minacciano l’esclusione delle squadre israeliane, come se i campi da gioco fossero il prolungamento del campo di battaglia. Sarebbe bene ricordare a costoro che lo sport dovrebbe unire, non dividere. E che fu proprio un commando palestinese, armato da chi oggi pretende tutela, a compiere la strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972.
Da allora il terrorismo palestinese ha cambiato simboli e bandiere, non la sostanza: riportare la violenza nel perimetro dell’agonismo significa legittimare la logica stessa del terrore. Dietro la retorica umanitaria si consuma così il più grande abbaglio etico della nostra epoca: confondere una democrazia sotto attacco con l’aggressore. Se i palestinesi deponessero le armi, ci sarebbe la pace. Se lo facessero gli israeliani, ci sarebbe il genocidio. Questa è la verità che non compare nei cortei né negli editoriali dei giornaloni benpensanti. Eppure basterebbe guardare al sistematico uso dei civili come carne da cannone, alla scelta deliberata di non rilasciare gli ostaggi, pur di continuare la guerra, per riconoscere la natura criminale del nemico. Difendere Israele – pur criticandone i limiti e le scelte militari del governo Netanyahu, ostaggio degli estremisti confessionali– non è un atto tribale ma etico. E non è necessario indossare la kippah o avere parenti a Tel Aviv per capirlo.
Basta credere che una società aperta – con tutti i suoi difetti – sia preferibile a un culto della morte che considera la vita (anche quella dei propri figli) moneta di scambio. Non è questione di torti e ragioni simmetriche: è una battaglia culturale tra chi vuole discutere in Parlamento e chi vuole far saltare i Parlamenti. Chi oggi manifesta contro Israele dovrebbe chiedersi perché non sia mai sceso in piazza per i morti del genocidio armeno, per i cristiani massacrati in Nigeria, per i civili yazidi fatti schiavi dall’Isis e degli Uiguri perseguitati in Cina. Forse perché in quei casi mancava l’alibi di un esercito occidentale da demonizzare. Nel grande processo della storia, Israele è imputato per aver reagito. Hamas, invece, continua ad essere prosciolto per mancanza di prove, anche quando le prove camminano tra le macerie con i kalashnikov in pugno.
Siamo entrati nell’epoca della moralità rovesciata, dove la realtà conta meno della narrazione. E dove chi rifiuta il ricatto del terrore viene accusato di esagerare nella difesa di sé. Ma la pace non nascerà da un finto equilibrio tra vittime e carnefici: nascerà solo quando il mondo avrà il coraggio di dire che un’organizzazione che uccide bambini nelle culle e vuole cancellare Israele dalla faccia della terra non è parte della soluzione, bensì il cuore del problema.
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