l'editoriale
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21 Agosto 2022 - 09:32
Il suo obiettivo era aiutare «quei ragazzi che bisticciano con la scuola». Ci è riuscito, intercettandone 5mila soltanto nel 2021. Ma è dal 2004 che Dario Odifreddi porta avanti il progetto della Piazza dei Mestieri, fondato insieme all’amica Cristiana Poggio. Oggi sono presidente e vice della fondazione che sta alla base di tutto: «È dedicata a Marco Andreoni, un altro grandissimo amico scomparso nel 1986 in montagna. Il suo desiderio di costruire qualcosa nella vita e di lasciare un segno nella storia era contagioso. Dal grande dolore per la sua scomparsa è nato un desiderio di costruzione che è stato molto importante per la nostra origine».
Com’è nata l’idea della Piazza dei Mestieri? «Ho sempre voluto fare l’imprenditore, sin da piccolo. Volevo dedicarmi a quei ragazzi che “bisticciano” con la scuola: sono i classici giovani cui si dice “vai a lavorare che tanto non hai voglia di studiare”. Da qui l’idea dell’agenzia di formazione Immaginazione e Lavoro, che fa ancora parte del nostro gruppo».
La Piazza è stato un passo in più rispetto all’agenzia. «Sì, lo abbiamo compiuto quando ci siamo resi conto di un problema enorme: l’incapacità di quei 17-18enni di mantenere un lavoro. Lo trovavano e poi, qualche giorno dopo, tornavano dicendo: “Mi hanno licenziato”. Indagavamo e scoprivamo che il primo giorno non era partito il motorino, il secondo non era suonata la sveglia e il terzo restavano a casa».
Come avete risolto questo problema? «Nel 2004 abbiamo creato la Piazza dei Mestieri, mettendo insieme educazione e lavoro: i nostri ragazzi imparano nozioni ma fanno anche esperienza di un mestiere con clienti veri. Infatti abbiamo un ristorante, un pub, un’agenzia di comunicazione dedicata a tipografia e grafica, un salone di acconciatura e un Its di informatica, tra i più premiati d’Italia. Tutto ha sede in un luogo bello che faccia da “casa” per gli studenti: oggi occupiamo circa 10mila metri quadri in via Durandi, nel quartiere San Donato. Poi abbiamo aggiunto le sedi di Catania e di Milano».
Ora siete diventati maggiorenni e avete raggiunto ben 5mila studenti. «Non dobbiamo sederci, però: bisogna sempre cambiare e crescere. Soprattutto dopo la pandemia, che ha avuto effetti devastanti dal punto di vista didattico, psicologico e delle relazioni».
Come state reagendo? «Organizziamo un cartellone con 70 eventi culturali all’anno e incontri con personaggi che “ce l’hanno fatta” e possono dare l’esempio ai ragazzi. Poi organizziamo corsi di aiuto con l’informatica e di educazione alimentare, altro grosso problema di questi tempi».
L’obiettivo è andare sempre più oltre la formazione professionale, quindi. «Oggi si sono persi i “corpi intermedi”, come le associazioni, gli oratori e i circoli: vale per i giovani come per gli adulti. La Piazza è nata anche per diventare un luogo di aggregazione: se ne rendono conto anche i clienti delle nostre attività. A far la differenza sono le 400 persone che lavorano stabilmente con noi: tutti, dagli insegnanti al bidello, condividono lo spirito e la passione verso i ragazzi».
Com’è cambiato il vostro lavoro dal 2004 a oggi? «È cambiato tanto, a una velocità impressionante. Ma è aumentata soprattutto la fragilità dei ragazzi: basta prenderli da soli per accorgersene. Credo che sia da attribuire all’incapacità di noi adulti di dare indicazioni e speranze: continuiamo a dire loro che staranno peggio di noi e vivranno nella precarietà. Invece dovremmo trasmettere positività e far capire ai giovani che valgono. Ma forse non ci riusciamo perchè abbiamo anche noi una debolezza di fondo».
Forse anche il mondo scolastico e formativo è rimasto indietro. «C’è la mentalità diffusa che sia sempre meglio andare al liceo e poi all’università. Ma è anche una sfida alle scuole e alla formazione professionale, che devono ripensare la loro offerta didattica: le lezioni frontali andrebbero ridotte a vantaggio di attività concrete. Penso che dobbiamo interrogarci tutti su questo tema e provare a cambiare».
Anche le politiche attive del lavoro andrebbero ripensate? «Sono ferme agli anni Ottanta e non insegnano a imparare e a riqualificarsi. E il reddito di cittadinanza non aiuta: dovrebbe servire solo come aiuto temporaneo. Il risultato è che siamo bombardati di chiamate da parte di gente che non trova personale. E non è tanto una questione di salario, che io non stabilirei per legge: le imprese devono restare competitive».
Quindi lei è fra quelli che “accusa” i giovani di non avere voglia di lavorare? «Io credo che i ragazzi abbiano perso il senso del lavoro come realizzazione di sé e come servizio per gli altri. Ma è una domanda che lascio aperta. Di certo la richiesta di personale è impressionante: com’è possibile che i ristoranti cerchino camerieri e 8 del nostro corso siano senza lavoro? Di questo passo l’Italia diventa davvero un Paese per vecchi: già ci condanna la demografia. È fondamentale far crescere la passione per il lavoro e far rinascere la positività del vivere».
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