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ECONOMIA & MODA
14 Agosto 2025 - 12:30
Dal 2019 al 2025 in Piemonte sono sparite 229 aziende artigiane della moda. Laboratori di sartoria, calzaturifici, piccole realtà del tessile e della pelletteria: una dopo l’altra hanno abbassato la serranda, passando da 2.458 a 2.229 attività. Numeri ufficiali di Unioncamere che raccontano una crisi silenziosa, fatta di famiglie che non ce l’hanno fatta, di macchine da cucire ferme e di ordini che non arrivano più.
La stessa situazione si ritrova in tutta Italia, dove il settore conta circa 60 mila imprese e più di 600 mila addetti, per lo più in microaziende a gestione familiare. Una rete che oggi fatica a reggere l’urto della concorrenza globale, dei nuovi stili di consumo e di una generazione di giovani che non subentra più in bottega.
«Il Made in Italy è conosciuto ovunque, ma serve stabilità per non disperdere questo patrimonio», spiega Samantha Panza, presidente del settore abbigliamento di Confartigianato Imprese Piemonte. Secondo l’associazione, dopo aver superato la pandemia, il comparto si trova ora alle prese con tensioni geopolitiche, nuove regole europee sulla sostenibilità e costi sempre più alti.
Il Governo ha riconosciuto la crisi del settore e per il 6 agosto ha convocato il Tavolo di Crisi del Sistema Moda. Ma per Confartigianato non basta: «Servono misure per salvaguardare i posti di lavoro, facilitare l’accesso al credito e sostenere l’innovazione tecnologica», aggiunge il presidente regionale Giorgio Felici. «Le piccole e medie imprese garantiscono qualità e artigianalità, vanno sostenute».
Dietro le griffe c’è una rete di artigiani che lavora in silenzio: modellisti, sarti, tagliatori. In Piemonte questa tradizione è radicata, ma oggi è in sofferenza. L’esplosione dell’e-commerce ha penalizzato chi non è attrezzato digitalmente, mentre inflazione e costi del lavoro pesano sui bilanci. Il credito è sempre più difficile da ottenere, e senza investimenti l’innovazione resta ferma. A complicare il quadro, l’uso improprio della dicitura “artigianale” su prodotti di importazione o industriali, insieme a laboratori irregolari che impiegano manodopera sottopagata. Intanto, il gusto dei consumatori si sposta verso il casual e lo sportivo, lasciando indietro il capo di alta gamma e favorendo il fast fashion.
Le nuove regole ambientali e di trasparenza sono un passo avanti, ma richiedono investimenti che molte aziende non riescono a sostenere. Per questo, sempre più imprese guardano all’estero, dove però servono competenze specifiche e risorse adeguate. La tenuta del settore dipenderà dalla capacità delle imprese di adattarsi e da politiche pubbliche capaci di proteggere una filiera che vale per l’economia e per la cultura del territorio.
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