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Gozzano canta Porta Palazzo: ecco la Gran Cuoca di Torino

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Porta Palazzo, mercato di Torino. Porta Palazzo, “Gran Cuoca” di Torino: così la chiamò Guido Gozzano, presentando in una sua pagina affascinante quello che oggi è il più grande mercato a cielo aperto d’Europa. Lo scrittore nato da una famiglia benestante di Agliè, si sa, era intimamente innamorato della capitale del Piemonte; e a Torino ha dedicato alcune delle sue più belle prose, oltre a una poesia celebre, che porta proprio il nome del capoluogo sabaudo.

A Porta Palazzo il poeta crepuscolare si rivolse con queste parole, nel 1911: «Il forestiero non ha bisogni di ragguagli per giungervi: dove termina via Milano e i tramvia e le carrozze s’arrestano tra una folla densa, varia, turbinosa dove il vociferare copre le parole con un fragorio continuo e assordante di selvaggio tam-tam, là è Porta Palazzo. Il quadro è veramente grandioso: tale è l’abbondanza, la varietà delle forme, delle tinte, degli odori, che la materia bruta destinata al bruto bisogno quotidiano, diventa quasi poetica, tale da far delirare lo scrittore stanco di snobismi intellettuali, il pittore desideroso di gamme nuove. I banchi delle verdure si succedono all’infinito, unendosi allo sguardo in un solo mare dalle tinte delicate e perlacee di certi acquerelli moderni.

Le insalate, le lattughe, le cicorie dal cuore appena schiuso, ancora grasse di terriccio, i cumuli di spinaci, di carciofi, di piselli, tutta la gamma del verde chiazzata qua e la dalla nota acuta delle carote fulve, delle rape violacee, dei pomidoro sanguigni; la merce è infinita: piramidi di peperoni enormi, verdi, ranciati, rossi, barricate di cavoli duri e compatti come sfere di metallo verde, altri aperti dalle foglie larghe, ricciute come immense corolle. Ed ecco la frutta: le belle ceste ricolme di fragole dall’aroma delizioso, cataste di aranci d’oro, d’albicocchi, di ciliegie lucenti come lacca vermiglia, caschi di banane tigrate, evocanti le selve d’oltremare. La fragranza dei frutti muore nel fetore acre della carne macellata. Passiamo in fretta tra l’ecatombe di vittime: agnelli, maiali, vitelli scuoiati, aperti, penduli dagli uncini robusti. Una schiera di macellai ci sbarra il passo, intenti a disporre sopra i carretti le teste mozze e glabre dei manzi novelli, le trippe annodate in matasse, le cervella, i fegati violacei. Due donne passano reggendo una tinozza di sangue.

Intorno è un vociferare sordo, un sollevarsi o abbassarsi di scuri lucenti che dimezzano le parti, frangono le ossa con urti sordi: uno spettacolo da far allibire tutta la Società protettrice degli animali… Ma ecco altre vittime: eserciti di polli schierati all’infinito, con le tre sole penne superstiti della coda eretta, con i colli penduli pietosamente, fagiani, tacchini, faraone; ed ecco i pesci annunziati da un fresco odore salso e amaro, l’odore delle rocce quando la marea si ritira e l’alghe si prosciugano al sole».

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