Mentre il trentesimo giorno di guerra sfuma via con la solita, tragica, conta dei civili morti, appare sempre più chiaro che le speranze di un cessate il fuoco in Ucraina siano affidate a ciò che avviene nelle segrete stanze delle trattative. Perché è evidente: la Russia, impantanata nel fango e nel ghiaccio del granaio d’Europa, arranca. Ma Zelensky sa che Putin potrebbe mettere in campo ben altro rispetto all’Armata rotta fatta di sbarbatelli e mezzi obsoleti senza rifornimenti.
E l’Ucraina, nonostante l’eroica resistenza dei suoi uomini e delle sue donne, se il conflitto proseguisse, sarebbe destinata a soccombere. Per cercare di intravedere uno spiraglio, bisogna allora distogliere per un attimo l’attenzione dalle immagini del massacro e della disumana diaspora a cui è costretta una generazione di bambini con le loro mamme. E provare a fare un esercizio di realpolitik, unica strada per trovare un accordo quando un accordo sembra impossibile. Ce l’ha insegnato la storia. Che è fatta di armi, ma anche da quella politica che, come avviene dopo ogni elezione, è abituata a cantare vittoria anche di fronte alle più atroci sconfitte. È questo che succederà in Ucraina, dove l’umanità ha già perso tutto ciò che aveva da perdere.
La pace arriverà quando Putin e Zelensky potranno dire al proprio popolo di essere stati capaci di vincere. Ognuno dovrà sacrificare qualcosa, ed è su questo che si giocano le trattative. Ma la sensazione è che qualche importante passo avanti sia stato fatto. «Ci stiamo avvicinando alla pace», dice nel cuore della notte, con un messaggio alla nazione, il presidente ucraino in maglietta verde. Che poi aggiunge: «Ci stiamo avvicinando alla vittoria». Passa qualche ora, e da Mosca filtra una indiscrezione. I soldati russi - riferisce Sky News - sarebbero stati informati dai loro superiori che la guerra dovrebbe finire entro il 9 maggio. Che non è una data a caso, ma quella in cui in Russia, ogni anno, si celebra con una parata militare il «giorno della vittoria» contro i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.
Vittoria, dunque. Per tutti. Con il Cremlino che, per la prima volta dal 24 febbraio, parla ufficialmente dei propri obiettivi, affermando che «gran parte» di quelli «fissati per la prima fase dell’operazione sono stati raggiunti», spiegando che «il 93 per cento del territorio della regione di Luhansk è stato liberato». Secondo alcuni osservatori (più pessimisti) questo significa che Mosca intende «chiudere» la partita del Donbass, e riorganizzarsi per poi continuare l’assalto al resto dell’Ucraina. Ma secondo altri il segnale potrebbe essere quello di indicare una possibile «via d’uscita» da uno scenario estremamente complicato per la Russia: confinando gli obiettivi al «solo» Donbass, magari con quella Mariupol che - diceva ieri il generale Carlo Cabigiosu su queste pagine - per Putin potrebbe rappresentare il trofeo necessario alla propaganda di chi voglia dirsi vincitore. Quel che accadrà si vedrà. La situazione, sul campo, resta incandescente.
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E mentre continuano a scoppiare le bombe, prosegue anche la guerra delle parole. Con la Russia che accusa il figlio di Biden di finanziare armi biologiche in Ucraina e il presidente degli Stati Uniti che attacca la Russia, avvertendo che «qui è in ballo la democrazia del mondo, contro le dittature». Parla dalla Polonia, Biden. Dopo aver stretto un accordo con l’Europa, cui l’America venderà un enorme quantitativo di gas che sostituirà quello venduto da Putin. E questo, almeno per ora, lo rende l’unico, vero, vincitore.
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