l'editoriale
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05 Maggio 2022 - 08:47
Il futuro deve ancora arrivare. Quello della musica, almeno, se per “Futuro” intendiamo quello iniziato con una data che da giovani ci sembrava lontanissima e foriera di rivoluzioni, il Duemila. Pensando agli anni che viviamo, forse immaginavamo che avremmo avuto auto volanti (siamo arrivati appena a quelle elettriche), o megalopoli popolate da replicanti (Blade Runner è ambientato nel 2019) o tutta una serie di apocalissi, climatiche o nucleari (queste, meglio non pensarci al momento…) che dir si voglia. E la musica? Chissà: magari pensavamo che si sarebbe suonato con strumenti dalle forme bizzarre, che sul palco sarebbero saliti robot o cantanti virtuali come ologrammi (qui, ci siamo andati vicini), o che la musica avrebbe veicolati messaggi di rivoluzioni sociali o culturali. Invece, a quanto pare, nulla di tutto questo è arrivato. «La prima parola che mi viene in mente è “piattume”» scrive Simon Reynold, uno dei più noti critici musicali, nel suo “Retromania” (Minimum Fax, 22 euro, traduzione di Michele Piumini), riedizione del suo fortunato saggio di qualche anno fa, dove il sottotitolo è chiarificatore: “Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato”.
Tutto sta nel prefisso “rétro”, che sempre visto come qualcosa di negativo ora identifica anche una forma di nostalgia. Ed è pur vero che la musica ha sempre vissuto di recupero di elementi del passato: il rock moderno nasce dalla nostalgia per quello anni Cinquanta e tutto nasce dal blues; persino il movimento più di rottura, ossia il punk, affonda le sue radici nella riscoperta - ed estremizzazione - dei Mod all’inizio dei ‘70 come forma di contestazione reazionaria della cultura hippy e pacifista. Ora, però, il recupero non è quello di un passato che si riteneva migliore: adesso si sfocia piuttosto nel revival, non nell’inglobare e riscrivere gli elementi di un tempo. Reunion, rimasterizzazioni: tutto questo unito a «dive cyborg come Lady Gaga», standardizzazione nelle campionature, la scena rap ridotta a «routine tutta gioielli e fondoschiena in bella vista», senza dimenticare l’influenza tanto denigrata della fase hipster.
Insomma, il giudizio di Reynolds non è tenero. La sua analisi tiene conto dell’incredibile accessibilità del passato, in termini di supporti e materiale disponibile tra video e Rete: diventa facile. Ciò che non suona “del passato” pare non piacere. I Maneskin forse piacciono perché il loro sembra rock “autentico”, adottati anche dai quasi ottuagenari Stones.
Giudizi e pessimismo a parte, tra aneddoti, analisi e storia, il libro di Simon Reynold è una chicca spietata e invadente e post punk, imperdibile per gli appassionati.
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