Il giovane dottore pestato a sangue e lasciato morire
17 Febbraio 2023 - 14:30
Il generale dei carabinieri Rosario Naro, è un fiume in piena. Ricostruisce fatti, ricorda dati, risponde alle domande e tante altre se le fa da solo. Perché in otto anni, di risposte, lui e la sua famiglia, ne hanno avute poche, e il dolore è diventato «tormento», un arrovellarsi quotidiano alla ricerca della verità. Se una verità processuale ci sarà, quando arriverà, sarà grazie alla loro tenacia. «Questo processo non volevano farlo. Quando abbiamo presentato il nostro esposto, la Procura della Repubblica, per due volte, voleva archiviare tutto. Ma noi non ci siamo arresi e alla fine, un anno fa, il Gup del Tribunale di Palermo ha accolto la richiesta e ha rinviato a giudizio per omicidio volontario tre persone. Una luce in otto anni di buio». Era la notte di San Valentino del 2015 quando suo figlio Aldo, diventato medico da poco, veniva ucciso a 25 anni durante una festa di Carnevale nella discoteca «Goa» di Palermo, quartiere Zen. Papà Rosario e mamma Annamaria, che vivono a Caltanissetta, hanno trascorso intere giornate in Tribunale, a Palermo, perché di questo processo non perdono un’udienza. Sul profilo Facebook creato per tenere accesa una luce sulla vicenda e gestito da Chiara, la sorella 26enne di Aldo, avevano pubblicato una lettera densa di dolore, immaginando che fosse proprio lui, Aldo, a raccontare in prima persona il calvario vissuto, dall’aggressione mortale fino ad oggi. «Ciao, sono Aldo Naro. Sono morto da solo per un motivo a me sconosciuto. Da otto anni la mia storia non riesce ad avere giustizia». La cosa più atroce, aggiunge il padre, «è che un’idea precisa ancora non ce la siamo fatta. Oggi, dopo otto anni, il mio Aldo resta morto per un motivo sconosciuto. Ma un motivo c’è, ne sono convinto. Quella sera qualcuno aveva deciso che Aldo dovesse morire, il nostro ragazzo fu bersaglio di una spedizione punitiva. Lo mostrano anche i video delle telecamere: si vedono 3, 4 persone entrare dirette nel privé dove lui era seduto tranquillo, con il braccio sullo schienale del divanetto, chiacchierava, scherzava con gli amici. E lì sono iniziate le botte. È stata l’esecuzione chiara di una condanna a morte».
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