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Zaini trasparenti, robot e 3 turni: ecco come si lavora da Amazon

amazon torrazza

Davanti all’hub di Torrazza Piemonte, le auto sono tutte parcheggiate in retromarcia: ci sono i cartelli che “invitano” a farlo. Perché in caso di evacuazione, sarebbe più semplice andare via. Ma anche perché, a fine orario di lavoro, con la stanchezza, uscire dal parcheggio senza troppe manovre è più sicuro. Da Amazon le “best practises”, o se preferite le quarantasei regole (più cinque riferite al Covid) da rispettare per gli oltre 14mila dipendenti in Italia, iniziano all’esterno. Non si fuma, da nessuna parte. I lavoratori arrivano con i loro zaini trasparenti forniti dall’azienda («Prima, con il Covid, lasciavamo gli oggetti personali nei depositi. Gli zaini sono trasparenti per motivi di sicurezza» ci spiegano), vidimano il Green Pass ed entrano nell’hub che grosso come una decina di campi da calcio, su tre piani.

Di sotto c’è lo spazio mensa: tavoli, frigoriferi, distributori di bevande, un tavolo da ping pong e un calciobalilla. E uno “spazio mamme”. Il cellulare non si usa, se non per emergenze, ricordano i cartelli vicino all’infermeria.

Dopo il caso della dipendente sospesa e poi “assolta” dall’Ispettorato del lavoro, ce lo si chiede: Amazon è un nuovo modello di lavoro o di controllo? Chi lavora come corriere denuncia la schiavitù dell’algoritmo per rispettare i tempi di consegna. Qui, tra immagazzinamento e imballaggio e smistamento, si giura che non ci sono né cronometristi né limitazioni. «Si lavora su tre turni: di giorno 8 ore con una pausa di trentacinque minuti - ci spiega la nostra guida - mentre di notte il turno è di 7 ore e 35 minuti, compresa la pausa. Dal venerdì notte al sabato mattina non si lavora, perché ci sono le verifiche nello stabilimento. Qui non ci sono limiti di tempo per andare in bagno: informare se si lascia la propria postazione è una esigenza di sicurezza».

Nello stabilimento ci sono persone con pettorine colorate: sicurezza e risorse umane, oppure i “leader”, sulla schiena hanno scritto «Ti posso aiutare». Ci sono sagome di cartone a forma di “TRN1” (il codice stabilimento, mutuato dall’aeroporto più vicino) con le firme dei dipendenti, lavagnette e bacheche con i consigli per la sicurezza e i premi aziendali, uno schermo che pare quello di un social a sostituire la “cassetta dei suggerimenti” che i leader dei gruppi controllano periodicamente.

Al piano di sopra, ci sono i nastri trasportatori, le cassette che portano la merce dei fornitori agli smistatori e ai “magazzinieri”. Ogni dipendente lavora in piedi su una piattaforma gommosa per attutire gli sforzi, usa una scala per arrivare al ripiano più alto: prende la merce, la passa sotto un lettore ottico e la immagazzina in una sorta di grande scaffale robotico a seconda della dimensione. «È la regola del caos organizzato: archiviamo cose differenti vicine, in base all’arrivo degli ordini e delle dimensioni». Lo scaffale robotizzato si muove da sé e va al suo posto. Al magazzino, protetto da una griglia metallica, accedono solo i responsabili come Giorgio, equipaggiati con dispositivi che, tramite Kindle, comunicano la posizione al robot, di modo che la sua traiettoria non incroci quella del lavoratore.

Quando arriva un ordine, il codice attiva il robot scaffale, da cui si preleva la merce che poi, tramite il solito nastro, raggiunge gli addetti come Alice, che passa sotto il solito lettore di codici e il software le indica anche il tipo di imballaggio più adatto, per risparmiare spazio, tempo e anche materiale.

Otto ore di una “catena di montaggio 2.0” da cui passano tutti i nuovi assunti: fa parte della settimana di addestramento. Poi, periodicamente, si ruota nelle varie mansioni: la filosofia è avere dipendenti addestrati a fare tutto, con stipendi da 1.032 euro al mese per gli addetti al controllo, fino agli oltre 2mila dei mulettisti.

Dal management danno cifre sul “modello Amazon”: in Piemonte 2.800 posti a tempo indeterminato solo nel 2021, il centro per l’intelligenza artificiale fra Torino e Asti, 8,7 miliardi di euro investiti in Italia dal 2010 e 18mila piccole imprese che hanno trovato nuovi canali di vendita sul Web.

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