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Il fatto
04 Settembre 2025 - 13:52
È l’alba del primo settembre 2023, il giorno dopo l’impatto che ha cancellato cinque vite sui binari della stazione di Brandizzo. Antonio Massa, caposcorta Rfi, sopravvissuto alla strage, è al telefono con lo zio. Sotto intercettazione. “Io ho fatto quello che dovevo fare, cioè il mio lavoro. Poi se gli altri hanno azzardato ad andare sul binario senza il mio consenso… eh…”. Nella versione di Massa, i cinque operai sarebbero scesi sui binari “mentre io scrivevo”. Sarebbero “partiti” senza autorizzazione. Una ricostruzione ripetuta, più volte, in una sequenza di conversazioni captate dagli inquirenti. Come quella in cui, con un amico, ammette di aver cercato di fermarli: “Addirittura uno, quando l’ho visto che stava partendo, ho detto: oh, stai fermo...”. Ma il nodo resta: l’interruzione tecnica – la condizione necessaria per lavorare in sicurezza sui binari – non c’era. E non c’è mai stata. Massa ai magistrati dice di non aver dato alcun ordine, né scritto né verbale. Eppure, secondo l’altro sopravvissuto, Andrea Girardin Gibin, caposquadra Sigifer, le cose sono andate diversamente: “Massa ci ha detto che potevamo cominciare, che avevamo un’ora e mezza per lavorare”. Sarebbe stato lui a invitarli, già nel pomeriggio, a portarsi avanti. Una parola, quella autorizzazione, che pesa. Non solo perché mai formalizzata, ma perché in quelle ore si muoveva una macchina complessa, e inceppata, fatta di cantieri su più linee e decisioni operative prese – e poi annullate – senza che nessuno avesse il controllo della situazione. Lo ricostruisce nero su bianco lo Spresal dell’Asl To3, il servizio antinfortunistico incaricato dalla procura di Ivrea: “Un'interruzione tecnica insufficiente, iniziata prima, a voce. Un modus operandi tollerato, frutto di una pessima programmazione. E che quella notte ha prodotto cinque morti”. Nei giorni successivi all’incidente, le intercettazioni raccontano un altro Massa. Quello che si lamenta del lavoro “pericoloso e sottopagato”, che ha paura di perdere il posto e teme i risarcimenti. Che si dice nel mirino di progetti politici, di un sistema che cerca un colpevole per “rifarsi l’immagine”. Che chiama in causa Matteo Salvini – allora ministro delle Infrastrutture – come promotore del suo licenziamento. E che accusa Rfi di voler solo “coprirsi il culo”. Sempre Massa, in quei giorni: “Voglio dire... è un gioco di dirigenza – si sfoga con un amico –. I dirigenti delle ferrovie vengono messi dalla politica, eh? Se devo ballare io, faccio ballare tutti”. Un’amarezza che, intercettata, prende spesso la forma del sospetto: “Alla fine il problema è molto su. Non è nostro il problema”. Mentre i vertici politici annunciavano commissioni e indagini, le famiglie dei cinque operai uccisi – Kevin Laganà, Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Giuseppe Saverio Lombardo e Giuseppe Aversa – restavano in attesa di risposte. O, quantomeno, di una verità condivisa. Ma il quadro – tra mail lette in ritardo, cancellazioni dell’ultimo minuto e assenza di comunicazioni ufficiali – somiglia più a un disastro organizzativo che a un incidente imprevedibile. Una “conversazione fra sordi”, scrive ancora lo Spresal, dove la sicurezza è un optional, e dove nessuno – nemmeno chi era a capo delle squadre – sapeva bene chi decidesse davvero. Gibin, davanti ai magistrati, conferma di non aver mai visto un documento formale. “Solo una volta mi hanno dato un Pos con il mio nome. Spesso firmavo elenchi per riunioni mai fatte”. Anche quella notte, secondo lui, si era proceduto “come al solito”: preparazione prima dell’interruzione. Un’abitudine pericolosa, ma diventata prassi. Chi abbia deciso di annullare l’interruzione programmata dalle 00.05 alle 4.30 del 31 agosto resta – formalmente – senza nome. L’annullamento arriva il 9 agosto, a firma di un funzionario, perché altri lavori sulla linea Trofarello-Asti imponevano il dirottamento dei treni. Ma lo stesso Spresal annota: “Si sarebbero potuti sopprimere, limitare, deviare i treni. Ma nessuno lo ha fatto”. Perché? Perché il sistema non prevede un vero responsabile. E quando le decisioni cambiano “più volte al mese”, in base a riunioni mai verbalizzate, diventa facile scaricare il peso delle conseguenze su chi sta più in basso nella catena. Fino all’ultima ruota. Fino al cantiere. Un anno dopo, la notte nera di Brandizzo è ancora una ferita aperta. Non solo per chi ha perso un figlio, un marito, un fratello. Ma per un'intera cultura del lavoro che continua a scegliere il rischio come scorciatoia. Con un sistema che, tra binari e burocrazia, resta lo stesso: senza firma, senza volto, senza colpa.
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