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Controllare una targa costa 47 centesimi: i Comuni pagano, ma è davvero legale?

Ogni volta che la polizia locale controlla una targa, il Comune paga. Ma una sentenza ha detto che non è giusto. E ora si attende la Cassazione

Controllare una targa costa 47 centesimi: i Comuni pagano, ma è davvero legale?

Ogni volta che una polizia locale controlla una targa, sia per una multa sia per un semplice accertamento, il Comune paga. La somma è di 47 centesimi per ogni accesso al database della Motorizzazione Civile, che gestisce i dati su veicoli e patenti per conto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. A prima vista può sembrare una spesa minima. Ma se si moltiplica per milioni di controlli ogni anno, il conto diventa salato: decine di milioni di euro che i Comuni italiani versano a Roma.

Questi soldi, secondo molti, non andrebbero nemmeno pagati. Alcune sentenze hanno già stabilito che questa "tassa sulle targhe" è illegittima. Eppure, quasi tutti i Comuni continuano a pagarla, spesso per abitudine, o perché nessuno li ha mai informati che non è obbligatorio. La tariffa risale al 1994, quando i controlli digitali erano complessi e servivano tecnici specializzati. All’epoca aveva senso chiedere un rimborso per ogni accesso al sistema. Ma oggi la tecnologia è cambiata: i dati sono disponibili in tempo reale, non richiedono elaborazioni particolari e la legge attuale dice chiaramente che gli enti pubblici devono condividere i dati fra loro gratuitamente, salvo eccezioni specifiche.

Questa regola è scritta nel Codice dell’Amministrazione Digitale, aggiornato più volte dal 2005 ad oggi. Anche l’Avvocatura
dello Stato
, che rappresenta il governo nei tribunali, ha dato ragione a diversi Comuni e all’ANCI (l’associazione dei comuni italiani), dicendo che i dati devono essere accessibili senza costi.

Nel 2013 il Comune di Milano fece causa al Ministero dei Trasporti, sostenendo che pagare per accedere ai dati delle targhe fosse contro la legge. La prima sentenza, nel 2018, diede torto al Comune, ma nel 2021 la Corte d’Appello ribaltò tutto: secondo i giudici, Milano aveva ragione, e il Ministero doveva restituire i soldi versati negli anni precedenti.
Il Ministero però ha fatto ricorso in Cassazione, e da allora — sono passati quattro anni — si è in attesa della sentenza definitiva.

Nel frattempo, i Comuni continuano a versare milioni di euro ogni anno. La convenzione con la Motorizzazione costa 1.450 euro fissi, uguale per grandi città come Roma o Milano, e per piccoli paesi di poche migliaia di abitanti. A questa si somma il costo per ogni accesso. Solo nel 2024, San Giuliano Terme (30.000 abitanti, provincia di Pisa) ha speso oltre 10.000 euro. A Milano, la previsione per il 2026 è di 1 milione e 200mila euro.
Secondo Marco Granelli, ex assessore alla mobilità di Milano, questa tassa “toglie risorse ai servizi importanti”, come la sicurezza stradale, e scoraggia l’uso dei dati digitali da parte dei Comuni. Inoltre, aggiunge, se il governo vuole davvero valorizzare l’autonomia locale, dovrebbe permettere ai Comuni di lavorare senza costi inutili.

Il Ministero dei Trasporti continua a difendere il pagamento, citando il vecchio decreto del 1994. Secondo loro, la legge non è mai stata abolita esplicitamente, e quindi è ancora valida. Ma l’Avvocatura dello Stato e diverse sentenze dicono il contrario. Ora la Cassazione dovrà decidere chi ha ragione.
Nel frattempo, l’ANCI sta cercando una soluzione politica, per evitare che ogni Comune debba fare causa al Ministero per farsi rimborsare.

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