l'editoriale
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10 Luglio 2021 - 07:48
Era l’ottobre del 1980, l’anno della ’“grande marcia”. Una folla di 40mila colletti bianchi invade il centro di Torino per protestare contro l’annuncio di 14.469 licenziamenti. E’ forse questo il simbolo più rappresentativo dell’inizio declino della Fiat già anticipato con gli scioperi e i conflitti tra operai e dirigenti nel decennio precedente di Berlinguer. A partire dal 1969 e durante gli anni di piombo infatti la Fabbrica Italiana Automobili Torino aveva già subito i primi scricchiolii e oggi più che mai paga uno scotto altissimo con livelli occupazionali e produttivi ai minimi storici. Ma a pagare, nel vero senso della parola, in questi 50 anni sono stati i lavoratori e i cittadini che hanno dovuto contribuire di tasca propria, tramite finanziamenti statali, al salvataggio dell’azienda, per poi assistere alle delocalizzazioni all’estero delle fabbriche e delle sedi.
E’ molto lontano il 15 maggio 1939, l’anno in cui Mussolini in persone inaugurò ufficialmente il nuovo stabilimento di Mirafiori alla presenza di 50mila lavoratori. Una fabbrica in grado di impiegare fin dagli esordi 22mila operai su due turni. Soltanto un vago ricordo sbiadito sono anche gli anni Cinquanta e quelli subito successivi del “boom” economico” che vedevano ben 65mila persone impiegate nelle catene di montaggio grazie al raddoppio dello stabilimento “Mirafiori Sud” e la realizzazione di ben 2.500 alloggi di edilizia popolare per contenere il flusso migratorio arrivato dal Meridione in cerca di lavoro. Numeri che sono gradualmente calati già a partire dagli anni Settanta, per arrivare a 25mila lavoratori di fine anni Novanta e le poche migliaia che si contano oggi. Una decrescita che ha interessato anno dopo anno anche la produzione crollata letteralmente in picchiata nell’ultimo periodo. Fa impressione pensare che nel 1974 si sono realizzate a Torino 6 milioni di Fiat 127, mentre nel 2019, ai minimi storici, le vetture prodotte sono state appena 19 mila. Soltanto Maserati Levante, per giunta. Nell’anno del Covid, complice i finanziamenti pubblici e la produzione della 500 elettrica, i numeri sono cresciuti a 36mila unità, circa la metà delle auto prodotte soltanto nel 2017. E se sul nostro territorio il crollo della produzione e del lavoro sono andati a braccetto, così non è stato invece per il finanziamento pubblico che lo Stato ha continuato a elargire a ogni crisi nonostante le delocalizzazione decise dalla famiglia Agnelli, poi Elkann, e dai vari amministratori delegati che si sono succeduti alla guida dell’azienda. In ultimo Marchionne. Decisioni che sono però sempre state ottemperate dai vari governi senza battere ciglio. Secondo quanto riporta la Cgia di Mestre dal 1977 al 2021 lo Stato avrebbe elargito 7,6 miliardi di euro in investimenti, ma di questi la Fiat ne avrebbe investiti soltanto 6,2. Appena l’anno scorso Fiat Chrysler ha ottenuto garanzie per altri 6,3 miliardi. E se si sommano i milioni di ore di cassa integrazione, i prepensionamenti, le rottamazioni concesse, gli stabilimenti costruiti con i soldi dei contribuenti, l’esborso pubblico si aggirerebbe intorno a 220 miliardi di euro. Soltanto nel periodo compreso tra il 1975 al 2012. Anni in cui di favori alla Fiat ne sono stati fatti tanti. Il caso più clamoroso fu la protezione data da Romano Prodi in occasione dell’asta sull’Alfa Romeo. Ma ci furono anche tanti interventi più “mascherati”. Basti pensare a quella nuova tassa che si inventò il governo Andreotti nel 1976, chiamata superbollo per i motori Diesel. Sotto al vestitino politico una grande mano ai motori torinesi che all’epoca erano praticamente solo a benzina e di cilindrate basse. Con il risultato di aver ritardato oltremisura la realizzazione della metropolitana a Torino.
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