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IL BORGHESE
01 Dicembre 2024 - 05:52
Dal terrorismo rosso degli anni ‘70 alle violenze contro i nostri agenti
Nei primi anni ‘70 del secolo scorso Torino era definita “la città laboratorio” del terrorismo con le Br infiltrate in fabbrica, il lancio dei bulloni sui capi squadra, le violenze ai cancelli, i comunicati affissi in officina per invitare alla guerra di classe. Nelle università andava per la maggiore il gesto di simulare la P38 con l’indice della mano destra proteso verso il nemico e il pollice alzato. Pochi anni dopo, alle dita si sostituirono le pistole e i giovani grazie all’insegnamento violento e vigliacco dei “cattivi maestri” che inneggiavano alla rivoluzione dai loro salotti, diedero fuoco alle polveri della rivolta armata.
A distanza di cinquant’anni le frasi sbagliate, gli slogan gridati nei cortei, le stesse parole di un leader come Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, inducono a riflessioni attente. E quello slogan urlato dal palco «Rivolteremo l’Italia come un guanto», non giova certo alla pace sociale. Specie ora che Torino, ritornata laboratorio, deve fare i conti con l’alleanza violenta tra studenti, autonomi, centri sociali e gruppi filo palestinesi (in abbreviato Pro Pal) e i loro omonimi milanesi che hanno ingaggiato anche i gruppi di immigrati in rivolta nei quartieri popolari come il Corvetto. La prova, assai preoccupante sta nell’assalto ai blindati dei carabinieri di fronte alle stazioni della nostra città con uova e scritte minacciose. Il segno di un salto di qualità dalle manifestazioni dei mesi passati (praticamente una ogni sabato) alla bomba carta che, di fronte alla nostra Prefettura, ha causato ferite e sintomi di avvelenamento da parte di numerosi militari. Si tratta, senza voler scomodare la storia, di sinistre assonanze tra passato e presente. E a dirlo sono i fatti di cronaca di queste settimane, dove Torino è stata la piazza più calda d’Italia. E dove certa politica deve riflettere sulle proprie responsabilità. Certe frasi che risuonano dai tempi passati come quelle sui “compagni che sbagliano”, non devono tornare ad essere al centro di tardive riflessioni, ma rispedite al mittente di chi infiamma le piazze. Nè deve esserlo uno sciopero generale come quello di venerdì, dove le bandiere rosse della Cgil si sono mescolate con quelle dei filo Hamas, a cui è seguita l’emersione dei gruppi violenti che hanno cercato lo scontro con le forze dell’ordine. I poliziotti feriti, sei tra le piazze e le stazioni durante lo sciopero, più di cinquanta dall’inizio dell’anno, devono essere un memento che viene dal passato per chi ne ha memoria. I nostri ragazzi con la divisa, sottopagati, costretti a fare da bersaglio, distolti dal loro ruolo che è quello di garantire sicurezza rispetto alla criminalità, non possono essere bersagli da abbattere. Ma se ascoltiamo gli slogan, facciamo di conto sulle immagini della Premier Giorgia Meloni, dei ministri e dei manager sporcate di sangue e date alle fiamme sulla strada, le grida, le minacce di morte e le randellate miste ad ordigni pirotecnici trasformate in bombe carta, già ora si coglie un’emergenza va rifiutata e combattuta. Specie quando, come rivelano fonti di polizia, si conoscono bene le provenienze e i covi dove si preparano gli scontri. Al centro c’è sempre Askatasuna in corso Regina Margherita al 47 che resta comunque agibile mentre avrebbe dovuto essere chiusa e disarmata tempo fa come hanno chiesto gli stessi sindacati di polizia al sindaco scendendo in piazza. Un segnale forte, tra i primi in Italia, che segnala un disagio forte da parte di chi veste una divisa. Torino è sguarnita, o almeno lo è rispetto ad altre città. E stupisce, anzi indigna, che per soccorrere Milano che chiede (e ottiene dal ministro Piantesi) altri 600 uomini tra le diverse forze dell’ordine, si chieda a noi di partecipare con decine e decine di nostri uomini. Pesi e misure che non ci piacciono. Specie ora che “il laboratorio” qui è già stato aperto.
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