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04 Agosto 2022 - 08:45
Sessant’anni senza Marilyn, l’attrice divenuta icona, il mito cui non è stato concesso di essere semplicemente Norma Jeane. Era la notte del 5 agosto 1962 quando la polizia intervenne al 12305 di Fifth Helena Drive, a Los Angeles, una bella villa dalle mura bianche, dove Marilyn Monroe viveva. Il corpo dell’attrice era sul letto. Le indagini avrebbero portato a considerare la morte come conseguenza dell’ingestione di pentobarbital. La più amata, la più sognata era morta sola, disperata per il silenzio - si dice - dell’uomo che amava e che, la sera precedente, aveva cercato di raggiungere vanamente al telefono. Quell’uomo era Bob Kennedy, il fratello di Jfk, in quell’intreccio misterioso di amore e potere che era stata la sua relazione con la famiglia regnante americana.
Della sua morte si è parlato a lungo, anche troppo: c’è chi tira in ballo i servizi segreti, chi i Kennedy, chi il boss Chuck Giancana che voleva punire proprio i Kennedy. Sessant’anni dopo, il mistero è più che mai vivo. E di Marilyn parla “Dea” (La nave di Teseo, 20 euro, traduzione di Laura Battaglia e Bruno amato), che esce domani in una nuova edizione aggiornata. In questo libro diventato un cult, Anthony Summers fa piazza pulita di tutte le voci e le storie e ci consegna la biografia definitiva dell’ultima grande diva dello schermo.
Il libro è ricco di sorprendenti rivelazioni sui matrimoni di Marilyn e sulle sue relazioni con uomini famosi, dal campione di baseball Joe Di Maggio allo scrittore Arthur Miller, ovvia il presidente John F. Kennedy e suo fratello Robert. Summers ha intervistato più di seicento persone tra conoscenti, amici e amanti; ha attinto rapporti segreti di polizia e registrazioni telefoniche prima secretate; ha potuto utilizzare la corrispondenza privata tra lei e il suo psichiatra e a documenti inediti che rivelano i complotti della mafia tesi a usare l’attrice contro i Kennedy.
Marilyn era una donna che «doveva difendersi dai lupi» come scrive Igort, il direttore della rivista Linus che alla diva dedica il nuovo numero: dei lupi parlava «in un testo bellissimo da lei scritto nel 1953 per la rivista Motion Pictures and Television Magazine. Lo intitolò Wolves I Have Known. “I lupi che ho conosciuto”, appunto. E dice tanto. Di come una donna divenuta in breve oggetto del desiderio di lupi, mannari o meno, avesse dovuto imparare a tenerli a bada. A domarli». «C’era già tutto in quelle pagine - dice Igort - che facevano risplendere la sua ironia malinconica. E la sua intelligenza, a dispetto di molti ruoli da oca giuliva cui il cinema l’aveva in qualche modo relegata, emergeva in una complessità maledetta che avrebbe condotto a quel tragico epilogo. Marilyn dall’infanzia turbolenta e travagliata, molestata sin da bimba. Dall’essere corporeo all’incarnazione sognante del corpo». E alla solitudine.
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