l'editoriale
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08 Dicembre 2022 - 08:26
Ci chiediamo - almeno quelli più sani tra noi - cosa lasceremo alla prossima generazione, ai nostri figli o nipoti: ma se quella generazione scomparisse, decidesse che ne ha abbastanza, che non solo non può più sopportare quello che accade ma ritiene che estinguersi sia l’unica risposta? Ecco, questo è l’interrogativo di un romanzo che è sinceramente disturbante, eppure appassionante, non privo di una sorta di comicità, perché anche questa è la vita.
“Inno americano” (Einaudi, 21 euro, traduzione di Eva Allione e Andrea Mattacheo) di Noah Hawley è stato salutato in America come il primo «grande romanzo americano post pandemico» e a quel punto la scelta dell’autore, che oltre a fare lo scrittore è regista ma soprattutto creatore e sceneggiatore della serie Fargo e del prossimo Alien, è farci arrivare un’altra pandemia, quella dei suicidi. A morire sono gli adolescenti, cominciano a togliersi la vita in maniere diverse, silenziosamente, senza alcuna spiegazione lascia dietro se non quella - ma questo si comprende dopo - di un codice. L’America, il mondo intero entrano in crisi: i ragazzi si uccidono a migliaia ogni giorno, gli adulti sono impotenti, la società si blocca, si fermano i campionati, si rinchiude una generazione in casa pensando di proteggerla...
In questo scenario post apocalittico, in una struttura che dovrebbe placare le ansie di vivere - e prevenire, ma in realtà ogni notte qualcuno se ne va - si incontrano Simon, cui è toccato di trovare il corpo della sorella, il “caso zero” per così dire, e Louise ma soprattutto un ragazzetto che pare John Lennon e si fa chiamare Profeta: lui sente la voce di Dio, lui sa che hanno una missione, combattere il drago e salvare la fanciulla o il fanciullo, per creare una Utopia, che è poi il domani. I tre fuggono e si mettono in marcia, trovando altri sulla loro strada, ciascuno come un sopravvissuto a mutare il suo nome in un altro sé, tra Stephen King e il Signore degli Anelli, metarealtà di un prossimo futuro, una nuova “crociata dei bambini” ma dal finale diverso, stavolta.
Una narrazione particolare, quella di Hawley, che premette fin da subito il ricorso alla matematica, trucco che svela in pochi calcoli quanto vecchia possa essere ogni narrazione rispetto al fluire incessante dei social, del web e infila il suo autore come narratore-protagonista, - «mi sono ispirato a Kurt Vonnegut» - in un percorso che va da una banale recita scolastica all’incomprensione, al rievocare, ciascuna famiglia per sé, quella difficoltà di capire, perché non si è vista la cosa più ovvia: «Ogni volta che parliamo con i nostri figli di cose come la violenza armata o il razzismo - dice Noah Hawley -, invariabilmente finiamo per dire “È complicato” e i nostri figli dicono “No, non lo è”. Pensi a Greta Thunberg che dice: “Non è complicato. O riscaldi il pianeta o non lo fai”».
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