Franco, Marco e Anna Maria Mottola si sono sottoposti per la prima volta, dopo 21 anni, all’esame dei giudici che li processano per l’omicidio di Serena Mollicone. In corte d’Assise a Cassino, di fronte alle contestazioni del pm, Marco, che ha parlato per primo, ha chiesto di sospendere la deposizione, suo padre si è accodato rinunciando al proprio esame e quello della mamma resta ad oggi fortemente in dubbio. Un appuntamento al quale l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, il figlio e la moglie, hanno scelto di sottoporsi ponendo due questioni preliminari: che ad interrogarli siano prima le difese, invertendo l’ordine abituale che dà la precedenza al pm, e che non siano utilizzabili nel processo, e quindi non gli possano essere contestate le dichiarazioni da loro rese prima del 2011, quando sono stati iscritti sul registro degli indagati. A giudizio dei loro legali i tre imputati erano già «indagabili» nel 2001 e quindi sarebbero dovuti essere ascoltati in presenza di un avvocato a propria garanzia. Il presidente della corte d’Assise di Cassino si è riservato di decidere su questo punto nella scorsa udienza e ha esordito in aula respingendola. Per primo parla dunque il 39enne Marco Mottola. Racconta di aver conosciuto Serena alle medie, di aver condiviso a lungo la stessa comitiva e di aver condiviso con lei qualche spinello. Ripercorre le sue frequentazioni a casa Mollicone, ma solo come studente di francese a lezione privata dal papà Guglielmo e assicura: «Non l’ho uccisa io, né nessuno dei miei familiari. Con lei non ho mai litigato né le ho mai messo le mani addosso. Ho saputo dai giornali che Guglielmo accusava la mia famiglia, ma a me non ha mai detto niente di persona. Ero sorpreso ed esterrefatto, abbiamo pensato anche di querelarlo, ma abbiamo scelto di non infierire per il dolore che provava». Poi, quasi con leggerezza, prova ad allontanare da sé i sospetti, fornendo la sua versione sui punti dell’inchiesta che più da vicino lo riguardano. Quando però si passa all’esame del pm Beatrice Siravo proprio le contraddizioni e le incongruenze dei vecchi verbali fanno crollare la sua apparente tranquillità. In particolare su quello che resta uno dei punti centrali del processo, l’ipotesi che il capo di Serena sia stato sbattuto con violenza contro una porta degli alloggi del comandante all’interno della caserma. Su domanda del suo avvocato Giorgio Di Giuseppe, Marco Mottola spiega che quel cratere nella porta sequestrata («pienamente compatibile» secondo la perizia di Cristina Cattaneo con l’urto ipotizzato dall’accusa) è dovuto a un pugno di rabbia sferrato da suo padre Franco in uno dei tanti episodi in cui gli aveva dato dei grattacapi. Il pm gli contesta però che nel 2008 proprio suo padre Franco attribuì a un pugno del figlio quello stesso buco e Marco va in confusione, gli avvocachiedono di sospendere l’esame rilanciando l’inutilizzabilità di quei verbali.
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