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CINEMA
28 Luglio 2025 - 09:40
Correva l’estate del 1995 quando "Waterworld" sbarcava nei cinema con la promessa di rivoluzionare il genere d’azione e fantascienza. Le aspettative erano oceaniche: Kevin Costner era all’apice della fama, la Universal ci credeva ciecamente, e Hollywood era affamata di visioni post-apocalittiche capaci di replicare l’impatto culturale di "Mad Max". Ma l’impatto che "Waterworld" lasciò non fu quello previsto: fu etichettato come “il Titanic dei flop”, un kolossal che naufragò sotto il peso delle sue ambizioni.
Eppure, a trent’anni da quel debutto incerto, il film merita una nuova rotta. É il momento giusto per riguardarlo con occhi diversi, più indulgenti e forse più consapevoli del mondo che ci circonda.
L’idea alla base era tanto semplice quanto affascinante: e se l’intero pianeta fosse stato sommerso dall’acqua, spazzando via ogni terraferma conosciuta? In questo scenario acquatico e ostile, il protagonista – il Mariner, un mutante solitario interpretato da Costner – naviga tra rottami del passato, atolli galleggianti e comunità tribali armate di tutto punto.
La pellicola, scritta da Peter Rader e David Twohy, prende spunto dall’immaginario di "Mad Max", ma lo declina in chiave marina. Niente deserti infuocati: solo distese d’acqua infinite, barche malconce, e sopravvissuti che si contendono oggetti di plastica come reliquie di un’epoca perduta. Un mondo liquido e ostile, forse troppo visionario per essere apprezzato appieno nel ’95, ma oggi incredibilmente attuale nella sua eco-ansia narrativa.
"Waterworld" era nato per essere epico, ma la sua produzione divenne leggenda per tutt’altri motivi. Girato in mare aperto, nonostante i moniti di Spielberg che suggeriva set controllati, il film fu falcidiato da intoppi, maltempo, incidenti, licenziamenti e tensioni crescenti tra il regista Kevin Reynolds e Costner stesso, che di fatto prese le redini del progetto nelle fasi finali.
Il budget, partito da 100 milioni di dollari, lievitò fino a 175 milioni, rendendolo all’epoca il film più costoso mai realizzato. Un record che pesò come una zavorra sulle aspettative e sull’accoglienza critica. Eppure, nonostante tutto, il pubblico rispose: i 300 milioni incassati globalmente permisero al film di evitare il disastro finanziario totale, anche grazie a un fiorente mercato home video e a un merchandising che spaziava da action figure a un’attrazione permanente agli Universal Studios.
Rivedere oggi "Waterworld" è come riaprire un vecchio diario scritto in codice: le sue immagini parlano di oceani che si espandono, di sopravvivenza post-climatica, di mutazioni e adattamenti. Era solo spettacolo o c’era dietro un messaggio? In fondo, nel 1995 il buco dell’ozono e lo scioglimento dei ghiacciai erano già nei titoli dei telegiornali. Oggi, con l’emergenza climatica al centro del dibattito globale, l’universo liquido del film appare come un monito visivo tutt’altro che campato per aria.
Kevin Costner, allora dominatore indiscusso del box office, interpreta un eroe cupo e distante, difficile da amare. Ma intorno a lui ruota un microcosmo affascinante: Dennis Hopper, memorabile nella parte del villain Diacono, guida una gang di folli inquinatori su una petroliera arrugginita; Tina Majorino è la bambina-mappa che può condurre alla terra promessa, mentre Jeanne Tripplehorn offre una delle sue interpretazioni più intense nel ruolo della madre adottiva Helen.
Il design visivo è forse la carta più forte di "Waterworld": le scenografie galleggianti, i costumi post-industriali, le imbarcazioni ibride e le sequenze d’azione acquatica sono frutto di una creatività che sfida il tempo. Alcune scene, come l’assalto all’atollo o la battaglia con l’aereo, conservano una potenza spettacolare ancora oggi difficile da eguagliare.
Sebbene non sia riuscito a diventare il nuovo "Mad Max", "Waterworld" ha lasciato un’impronta che si è sedimentata lentamente, come un relitto affiorato col tempo. Il suo immaginario ha influenzato videogiochi, fumetti e altri film distopici. Non è un caso che Brendan McCarthy, co-creatore del fumetto "Freakwave" (una delle ispirazioni non ufficiali del film), sia poi tornato a collaborare con George Miller per "Fury Road" e "Furiosa", segnando una vera rinascita del genere post-apocalittico.
Illustrazione tratta dal fumetto "Freakwave"
Oggi, "Waterworld" è un monumento alla follia produttiva, ma anche alla creatività fuori controllo. É un esempio lampante di quanto il cinema sappia sognare in grande e sbagliare in modo clamoroso, ma anche di come certi “errori” possano diventare cult. Rivederlo significa anche fare pace con un’epoca in cui Hollywood ancora tentava strade impervie, senza il paracadute del CGI onnipresente o dei franchise infiniti.
Se da bambino ti sei perso nei flutti di "Waterworld", oggi potresti riscoprirlo con occhi nuovi. Perché certi naufragi, a ben vedere, hanno più fascino delle crociere perfette.
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