La maglia della nazionale di “sitting volley” e il camice da fisioterapista. «Sono le mie due divise, le mie corazze».
Francesca Fossato è appena rientrata dalle
Paralimpiadi di Tokyo, già pronta per il cambio d’abito e il ritorno dai suoi pazienti al
Mauriziano. Lo impongono tre cose. La sua etica professionale, la passione e il fatto di aver consumato tutte quante le ferie per indossare i colori dell’
Italia in Giappone. «Con lo sport di squadra è già difficile mantenersi, se non si hanno sponsor importanti, si fa parte di un corpo militare o delle forze dell’ordine» racconta senza giri di parole la pallavolista, a poche ore da un ritorno alla realtà quotidiana tutt’altro che semplice.
Francesca Fossato, nemmeno il tempo di godersi la gloria olimpica ed è tornata al lavoro. Zelo o senso del dovere?
«Il nostro è uno sport di squadra, per lo più paralimpico e a differenza degli olimpionici “normodotati” (espressione che odio) o di chi magari può avere degli sponsor, non navighiamo certo nell’oro. Anzi...»
Se non ci fosse il suo lavoro da fisioterapista non riuscirebbe a mantenersi con la pallavolo?
«La pallavolo è la mia grande passione, chiamiamola così, perché io per andare alle Olimpiadi ho dovuto ridurre il tempo lavorativo e per fortuna ho un “part time” che mi permette di allenarmi: altrimenti non avrei abbastanza ferie per fare sport».
Ed è per questo che è tornata immediatamente al suo lavoro in ospedale?
«Sì, fin dal giorno dopo il rientro da Tokyo».
Cosa ha portato con sé da quest’esperienza?
«Rientrando da Tokyo e riaffacciandomi in ospedale mi sono accorta di aver maturato un’idea diversa del mio lavoro: mi sono accorta che in Italia abbiamo un approccio alle cure - specie nella riabilitazione, che è il mio campo - un po’ passivo. Poco volitivo, insomma. L’ho capito all’interno del villaggio olimpico dove ho incontrato persone con disabilità molto importanti che non si fermavano di fronte a niente. Alcuni che a forza di allenarsi nella propria disciplina, per esempio la corsa, hanno finito per trovarsi meglio su una pista d’atletica che non affrontare una camminata in città».
In Italia, invece, come è vissuta la disabilità?
«In Italia c’è una mentalità troppo stereotipata rispetto alla disabilità, oltre ad un concetto un po’ farlocco di normalità, da cui dobbiamo uscire se vogliamo davvero cambiare le cose. Nella mia vita “precedente”, prima dell’incidente in cui ho perso la gamba, avevo un po’ un preconcetto rispetto alle stampelle e alle protesi, che poi mi è rimasto: già solo per il fatto di usarle non mi sentivo a posto. E credo che questo dipenda dal fatto che la nostra cultura non accetti ancora del tutto di vedere qualcuno con le protesi o che si muove in carrozzina».
Lei si è laureata proprio con una tesi sul recupero da un’amputazione, molti anni prima di perdere un arto. Che effetto le ha fatto trovarsi dall’altra parte?
«Quando studiavo e facevo il tirocinio l’amputazione era qualcosa che non accettavo, mi faceva soffrire troppo già solo l’idea ed è per questo che ho scelto di studiare e approfondire questa materia. Poi ho scoperto che la riabilitazione del paziente amputato può essere uno dei recuperi più belli e completi, chiaramente a seconda delle condizioni di salute. Così, quando mi sono trovata io nella condizione dei miei pazienti, la fortuna è stata quella di avere molti strumenti in più con cui ripartire»
Come le ha cambiato la vita?
«La mia vita è cambiata in un momento: la cosa più banale, come camminare, se prima era un mezzo, per me è diventato un fine. Tutto è più complesso, perché come nel mio caso, anche se l’amputazione non si vede, portare una protesi tutto il giorno significa sopportare piaghe e fare molta più fatica anche al lavoro. Per fortuna con i miei superiori e i miei colleghi ho un rapporto molto aperto, famigliare e sono molto comprensivi. Anzi, spesso sono loro a dirmi di fare più attenzione a non sforzare la gamba o esagerare nell’indossare la protesi».
Come ha vissuto la riabilitazione e il recupero?
«Ho capito che la parte più difficile, il momento più complesso da superare non è l’amputazione, ma quello immediatamente successivo: quando si comincia ad avere a che fare con la creazione della protesi, abituarsi ad usarla e avere cura delle piaghe che può portare, oppure, cominciare a fare i conti con le difficoltà di ogni giorno».
Per esempio?
«Le basti sapere che sono tornata da Tokyo e il primo impegno è stato quello di andare a rinnovare il permesso per il parcheggio disabili, che attualmente non ho ed è scaduto mentre ero via. Ha una validità di soli sei mesi perché per via del Covid non ho potuto fare la visita per il rinnovo e, sebbene avessi portato con me tutta la documentazione necessaria, mi sono vista rimbalzare perché non avevo seguito la procedura che richiede di prendere un appuntamento via posta elettronica. Ho spiegato che non avevo più giorni di ferie e sarebbe stato più che complesso. Niente da fare».
Il ritorno alla vita di tutti i giorni è stato subito in salita?
«Il giorno prima ero una delle “eroine” delle Paralimpiadi e in quel momento ero tornata a fare i conti con una burocrazia impossibile. Non chiedevo un privilegio per questo, ma mi ha impressionato l’impatto con la realtà. Per cui se fino al giorno prima eravamo celebrati, proprio per la stessa ragione dal giorno dopo siamo tornati ad avere a che fare con mille difficoltà».
Parla della disabilità?
«Sì e non significa solo barriere architettoniche, anche la burocrazia in Italia è una cosa impossibile. Io, ad esempio, non ho mai avuto il parcheggio numerato sotto casa perché non risulto “stabilizzata”. Oppure, le persone come me, per via della protesi e della giovane età, sono considerate a tutti gli effetti con due gambe dalla legge. Ma la stessa odissea vale anche per ottenere le protesi o qualsiasi altra cosa per cui servono pratiche infinite. E io sono giovane e sveglia: pensi agli anziani»
Torino le sembra una città a misura disabile? Che rapporto ha con la sua città?
«Le mie compagne di squadra mi prendono in giro per il mio “orgoglio sabaudo”. Amo Torino perché è una grande città circondata da una natura meravigliosa, che mi ha fatto sentire a casa appena ho rivisto le montagne dall’aereo. Ma non posso dire che sia una città a misura di disabile»
Perché?
«Nel mio quartiere per anni non ci sono stati parcheggi per disabili, per averne uno abbiamo lottato per anni e quando lo hanno tracciato non si sono accorti di averlo fatto su una curva così stretta per cui basta una manovra sbagliata per trovarsi la macchina tamponata o peggio».
Sembra quasi inutile chiederle che rapporto abbia con i mezzi pubblici...
«Sono stata una ragazza che ha sempre fatto l’abbona - mento ai mezzi pubblici, ma da quando porto una protesi per me autobus, tram e metropolitana non esistono più. Non ho mai nemmeno più preso in considerazione di prenderli, ma non certo per la mia indole».
Si avvicinano le elezioni Comunali. Cosa l’ha delusa in questi anni e che consiglio darebbe al futuro sindaco?
«L’unica delusione è stata rinunciare alle Olimpiadi invernali con Milano e Cortina. Questo mi brucia. Quanto al nuovo sindaco vorrei che cominciasse davvero a lavorare sui temi dell’inclusione, per il superamento delle difficoltà di ogni giorno a cui accennavo. Abbattere burocrazia e barriere architettoniche».
Lei lavora in sanità. Con il Covid chiunque indossasse un camice è stato celebrato come un eroe. Vi sentite ancora considerati così o, come per le Olimpiadi, quell’esaltazione è stata fittizia?
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«In ospedale c’è tanto dolore, stanchezza e amarezza. Dopo un anno e mezzo è tutto ancora molto complicato. Diciamo che se nella prima ondata eravamo eroi, nella seconda ci è stato chiesto di stringere i denti e nella terza, come mi hanno confermato molti colleghi di vari reparti, siamo rimasti sempre noi a non riposare mai e fare sacrifici su sacrifici».