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La morte di Bruno Caccia

VecchiaCarabinieri
Bruno Caccia, classe 1917, era un cuneese rigoroso, sincero, membro di una famiglia con una lunga tradizione in magistratura. Combatteva contro terrorismo e criminalità organizzata: aveva un’altissima concezione del suo lavoro; fino a tarda serata, si fermava a scrivere, leggere, elaborare gli indizi. Voleva combattere l’infiltrazione mafiosa al Nord, specialmente la ‘ndrangheta calabrese.

Il 26 giugno 1983, Caccia si recò fuori città e tornò a casa nella sera. Era una domenica, motivo per cui egli decise di non ricorrere alla scorta: questo atto di gentilezza nei confronti degli uomini della scorta gli fu fatale. Erano le 23.30 quando, mentre portava a passeggio il cane, un cocker, Bruno Caccia fu affiancato da un’auto con due sicari, che gli esplosero contro 14 proiettili, finendolo infine con tre colpi a bruciapelo.

Chi aveva ucciso il Procuratore Caccia? Le indagini si rivolsero in un primo tempo alle Brigate Rosse, che avevano rivendicato l’azione; poi, però, si scoprì che la rivendicazione dei brigatisti era falsa. Fu un boss della cosca catanese che indirizzò gli agenti sulla pista della ‘ndrangheta. Uno dei capi ‘ndranghetisti di Torino, Domenico Belfiore, già in carcere, ammise che era in programma l’uccisione di Caccia.

Domenico Belfiore, riconosciuto quale mandante dell’omicidio, fu condannato nel 1993 all’ergastolo. Il presunto autore materiale dell’omicidio fu però preso anni dopo: nel dicembre 2015, il panettiere Rocco Schirripa, un calabrese con precedenti con la giustizia. Alla fine, Schirripa fu condannato all’ergastolo, benché lui si fosse sempre dichiarato un capro espiatorio.
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