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La storia

Molestie e ricatti per lavorare: l'inferno di Glovo visto dall'interno

Intervista a Ludovica e Michelle, che ora faranno causa al colosso delle consegne

Da rider a "spie" per lavorare di più: l'inferno di Glovo raccontato dall'interno

Foto d'archivio (LaPresse)

Michelle parla poco, Ludovica è un fiume in piena: «Ci completiamo a vicenda» scherzano le due colleghe. Diventate amiche e compagne nella denuncia contro Glovo, per cui hanno passato anni a consegnare il cibo a domicilio. Costrette a fare favori, subire avances sessuali, spiare i concorrenti e gli avvocati che tutelano i fattorini. Tutto in cambio della possibilità di lavorare più ore e quindi guadagnare di più all'interno di un colosso che si vanta di evadere un ordine al secondo. La scalata delle due donne era merito del cosiddetto "gruppo Veteran", una sorta di cerchia a cui solo gli eletti potevano accedere: «Eravamo tra i privilegiati ma era come essere finiti in una spirale, a metà fra l'Inferno di Dante e Squid Game».

Ora le due donne, che hanno scelto nomi di fantasia per non rivelare la loro identità, sono uscite dalla cerchia. Soprattutto hanno deciso di rendere pubblico questo sistema che loro definiscono «tossico, dispotico e paradossale». Nei prossimi giorni presenteranno una causa di lavoro, assistite dall'avvocato Giulia Druetta. La stessa che loro avrebbero dovuto spiare, stando a una delle incredibili richieste che hanno ricevuto nel corso degli anni: «Ti ho inserito nella chat dei “Veteran” - ha scritto, in un messaggio a Ludovica, il responsabile del gruppo torinese - Come motivazione, oltre a essere rider già dai tempi di Foodora, ho messo che ci dai una mano con Druetta come infiltrata». Perché le legale da anni si occupa di tutela del lavoro dei rider e Ludovica, che aveva già partecipato alla prima causa contro Foodora, avrebbe dovuto carpirne i "movimenti" nelle varie cause aperte contro Glovo e riferirli ai superiori. Non solo: uno dei capi voleva le password del profilo di Deliveroo di Michelle, in modo «da studiare il meccanismo di funzionamento della concorrenza». A tutto questo si aggiungono battute a sfondo sessuale, come «guarda il calendario, non mi spiego come sia possibile che tu ancora non me l’abbia data».

Il fatto di essere donne, per Michelle e Ludovica, è sempre stata un problema in più all'interno del mondo del delivery: «Abbiamo lavorato anche dalle 2 di notte alle 8 di mattina ma è pericoloso, oltre al fatto che ci sono pochi locali aperti. In generale i clienti si stupiscono di trovarsi davanti delle ragazze italiane: qualcuno è solidale e dà la mancia, altri si lamentano e insultano per qualche minuto di ritardo».

Sono solo alcune delle difficoltà di un lavoro alienante, che le due rider definiscono «una sorta di videogioco». E non solo loro.

A comandare è l'algoritmo, che costringe a lavorare tutti i giorni della settimana per guadagnare punti e avere la possibilità di "prenotare" più ore di lavoro. Così Michelle e Ludovica hanno fatto per anni, in bici o in auto. Viaggiando senza fermarsi mai, mangiando un panino al volo o portandosi i bambini dietro per raggiungere un buon stipendio, che poteva raggiungere i 2mila euro lordi (andando in auto, quindi dovendo togliere importanti costi di carburante): «All’inizio si accetta perché si lavora sempre e sembra un compito facile. Poi sfugge tutto di mano per colpa degli algoritmi e dei punteggio che va giù se stai a casa: se perdi punti, non hai più ore da prenotare per lavorare. E diventa una spirale che porta sempre più giù, una combinazione dell'Inferno di Dante, di Squid game e Black Mirror: è davvero un gioco infernale, con punti che salgono e scendono ma il loro meccanismo è un mistero. Per anni siamo stati nella cerchia dei privilegiati, a stretto contatto con i manager: grazie a questi scambi di benefici, ottenevano le ore che volevamo. Più che un mestiere sembra davvero un videogame che ti avvolge e poi ti espelle, con personale fisso nelle posizioni più alte della classifica e ricambio continuo a bassa quota. Ma così è completamente tossico dal punto di vista mentale, anche perché ci veniva estorta collaborazione come se fossimo dipendenti: era un giro occulto, dispotico e paradossale, lavoro che ti espelle da sé, con ricambio continuo a bassa quota e fattorini fissi in alto».

È per questo che avete deciso di esporvi e denunciare questa situazione? «Non pensavamo di scatenare una simile risonanza mediatica, il nostro obiettivo è solo raccontare il Far West di Glovo». Il primo risultato, in attesa della causa di lavoro, è l'indagine interna da parte dell'azienda. Ma anche insulti e minacce, come «meriterebbero una legnata, ma io non picchio le donne» è uno dei messaggi ricevuti dopo che le due donne si sono esposte. «I supervisori cercano di mettere a tacere i sottoposti e fanno quello che gli pare, incluso fare richieste assurde ai loro rider. Ma non sta né in cielo né in terra: è questo il modello che ci aspetta?». Ludovica e Michelle sperano di no: «È una tendenza da non replicare: al di là del folklore e del caso specifico, bisogna ragionare tutti insieme su quello che non va in questo Paese. A partire da Torino, che ha fatto un po’ da apripista sulle cause contro le aziende di delivery».

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