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18 anni dal rogo alla Thyssen
06 Dicembre 2025 - 05:50
La cosa più spaventosa di quel 6 dicembre 2007 è una immagine: quella di un mezzo - uno solo - dei vigili del fuoco di fronte allo stabilimento della Thyssen. Non ci sono né fiamme né fumo, né segni di danneggiamenti. Tutto si è consumato all’interno, in corridoi e reparti di lavoro trasformati nell’inferno di fuoco. Nella notte. Di quella mattina, il ricordo più straniante, più terribile è l’apparente normalità di quella immagine.
Il dolore, la rabbia, l’incredulità si consumavano nei reparti degli ospedali dove furono portati gli operai. Antonio Schiavone fu il primo a morire, giù nella “fossa” dell’impianto su cui lavorava, nel tentativo di disincastrare la lama d’acciaio. Operazione rischiosa, ma abituale. Gli altri morirono, uno dopo l’altro, nell’incoscienza indotta del coma, in un silenzio asettico rotto dal bippare dei macchinari nel reparto grandi ustionati. Dopo aver guardato in faccia - ciascuno di loro - la morte, guardando ognuno il volto del compagno di lavoro, mentre erano lì, in quei minuti dopo l’onda di fuoco, in piedi, orribilmente ustionati: c’era chi chiedeva a un collega «non sono troppo bruciato, vero?». Chi urlava «non voglio morire» e quelle parole sono rimaste nell’audio di telefonate ai vigili del fuoco.
Lo shock colpì la città che si preparava al Natale. Lì, in quello stabilimento derelitto, si portava avanti una produzione ormai al lumicino, ma molti operai erano stati richiamati dalla cassa integrazione: erano padri di famiglia felici di lavorare «per comprare i regali ai figli»; erano figli, mariti, compagni, fidanzati, fratelli, amici. Erano lavoratori che dovevano tornare a casa: il diritto fondamentale, basilare, la vera ragione per cui dobbiamo ricordare la strage della Thyssen, così come quella sui binari di Brandizzo, o il crollo della gru di via Genova. E ogni dannato incidente che torna a ripetersi, ogni giorno.
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