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IL REPORTAGE
31 Marzo 2024 - 05:47
«Quando da qui è uscita la prima Uno dalla Fiat avevano chiamato per presentarla persino Gianfranco D’Angelo o un personaggio del genere, insomma, ai tempi sì che sapevano organizzare una festa per lanciare un nuovo modello». Bisogna fare un enorme sforzo di fantasia, specie se si è giovani, per pensare che questo racconto sia reale o verosimile. Ancora maggiore per credere che, proprio dai giganteschi capannoni, oggi deserti, davanti ai nostri occhi, sia uscita tanti anni fa la prima utilitaria capace di far sentire un operaio di Rivalta o Mirafiori, al pari, d’un collega di Detroit. Qualcuno ripenserà al lancio della nuova Cinquecento, con giochi pirotecnici ai Murazzi e sul Po, forse. «Fu qualcosa di più, chi non c’era non può immaginare cosa fosse allora la Fiat» testimonia, invece, chi al tempo indossava una salopette blu con lo stesso orgoglio d’una divisa da ufficiale.
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Tetti Francesi, Rivalta. Un pugno di chilometri quadrati puntellati di capannoni. Siamo di fronte a quello che, fino a pochi anni fa, «era uno degli stabilimenti italiani che produceva più automobili e impiegava più metalmeccanici» raccontano gli anziani all’incrocio tra viale Primo maggio e via Mattei, ricordando quando «qui non muovevi un passo all’ora del cambio turno, immagina questi piazzali pieni di automobili di operai che, ogni otto ore, si scambiavano il posto sulla linea». Oggi è un deserto. «E dire che, sulla carta, sono ancora stabilimenti Stellantis, gli unici in cui si fa straordinario e dove arrivano operai da tutta Italia. Anche da Pomigliano» racconta Benito Crispino, uno di quegli operai di cui sopra, tutt’ora impegnato in Fismic. «Qui c’erano le sedi di tutti i sindacati» ci dicono allo storico Caffé Mattei, dove le uniche “tute blu” che incrociamo sono quelle dell’Avio. «Gli unici che lavorano» li irride chi, alla vigilia della domenica di Pasqua, si gode l’aperitivo del sabato mattina, mentre questi attendono il solito pranzo frugale per una decina di euro.

I figli degli operai
Orecchiette al sugo, bistecca alla milanese e patatine fritte, dice il menù. Sono talmente pochi che bisogna aguzzare l’orecchio come un gatto per ascoltarne i discorsi. Si parla di turni, organizzazione delle ferie e del lunedì di Pasquetta. E sembrerebbe tutto normale, persino di trovarsi a condividere la pausa pranzo con i metalmeccanici. Non fosse per il numero. Otto. Tanti se ne contano ad occupare il doppio dei tavoli. «Una volta qui avresti trovato la coda persino per prendere il caffé» svela Antonio, uno dei figli di quella cittadella operaia a una ventina di chilometri da Mirafiori.

«Qualcuno, ad un primo colpo d’occhio, potrebbe persino pensare che sia uno stabilimento più grande di quello di Torino, ma non è così per poco - spiega -. Però, se si mettono insieme i pezzi: Rivalta, Rivoli e, anche solo, Grugliasco, tra indotto e diretto Fiat, poi Fca e ora Stellantis, possiamo parlare del più grande polo manufatturiero d’Europa». Un patrimonio che non esiste più. Dietro questi cancelli, infatti, c’è solo più l’ultimo “hub” della logistica lasciato in vita da Carlos Tavares. «E ringraziate d’averne» direbbero in dialetto i vecchi del posto. Perché qui il paradosso è questo. E a spiegarlo con le parole più chiare di tutti è proprio uno degli avventori del bar. Il figlio di quegli operai. Più d’un sociologo. «Ho capito una grande lezione quando è morta mia madre e, mi sembra, valga anche per Rivalta nel piano di Stellantis. Meglio sopravvivere mangiando col “sondino” che morire di fame».

C’è un enorme tendone tricolore a proteggerci dalla pioggia mentre osserviamo, senza rendercene conto, uno dei più grossi giganti dell’industria automobilistica italiana, oggi, anch’esso vuoto. «Un gigante dalla pancia vuota» dice Lucia, chiosando l’unica riflessione che viene alla mente mentre gli occhi cercano di cogliere l’imponente sequenza di capannoni davanti al Caffé Mattei. Poi, alle spalle, compare come un fantasma l’Avvocato. Gianni Agnelli è proprio lì, che osserva di sghimbescio dalla parete alle nostre spalle, in una delle sue più simboliche iconografie. Vecchio e giovane, allo stesso tempo, con le maniche d’una camicia di jeans rimboccate e lo sguardo corrucciato di chi sta facendo un appunto che è meglio segnare. Un’icona, appunto.
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«Prego, prego, la fotografi pure» ci suggerisce Lucia, mentre sua figlia sceglie su una piattaforma digitale l’ultimo cartone animato da guardare. Che fossero una famiglia cinese, non c’era bisogno di chiederlo. «Ma questo è uno dei bar storici di Rivalta» puntualizza Sergio di fronte al dubbio di trovarsi in un locale come gli altri. «Il Caffé Mattei credo esista da quando sono nato, ora ce l’hanno i cinesi, ma prima era uno dei locali frequentati dagli operai della Fiat». Come oggi, meno di allora e con altre cifre sulla casacca di fabbrica. La scritta Fiat non c’è nemmeno più sul «lungo ponte» che attraversa il vialone che celebra proprio il lavoro e il Primo maggio. «Era gigantesca, bella. Avrebbero potuto lasciarla». Forse, l’avrebbe pensato anche l’Avvocato che, oggi, guarda verso il nulla.
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