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Chiesa piemontese

Mancano i preti , le parrocchie chiudono e i fedeli non si confessano più

Situazione preoccupante nelle diocesi di Torino e Ivrea - Sono diminuite anche le persone che partecipano alle messe domenicali

L'arcivescovo

Monsignor Roberto Repole

I numeri sono quelli che sono, in costante diminuzione e rappresentano un Chiesa in declino. I dati sono relativi ai sacerdoti, ai fedeli che frequentano le parrocchie, alle funzioni religiose e agli oratori delle diocesi di Torino e Ivrea. Non che altre chiese locali vadano meglio, anzi. Sotto la Mole l’arcivescovo Roberto Repole, pienamente consapevole di come stiano andando le cose, starebbe avviando una riforma pastorale delle parrocchie. Il prete, trasformato in una sorta “commesso viaggiatore”, si occuperà delle anime di più parrocchie, cosa che avviene già da tempo nella diocesi di Ivrea, oggi retta da monsignor Edoardo Aldo Cerrato. Ma ecco i numeri delle due chiese locali.

MONSIGNOR EDOARDO ALDO CERRATO VESCOVO DI IVREA

Gli ultimi dati ufficiali di Torino sono del 2020: poco prima della pandemia i sacerdoti erano 890 conto i quasi 2mila del 1950. Considerando che i secolari sono 435 (quelli che dipendono direttamente dalla curia), a cui bisogna sottrarre gli anziani, i malati, e chi lavora negli uffici dell’archidiocesi, appare evidente come le truppe di Repole siano davvero ridotte all’osso, di fronte alle 347 parrocchie della diocesi (con relativi oratori) che nel 1950 erano 332. Lo scenario a Ivrea, è pressoché identico: 110 preti nel 2021 contro i 364 del 1950 per un totale di 141 parrocchie che nel 1950 erano 3 in più. Ci sono poi altre considerazioni da fare. Fino agli anni successivi il Concilio Vaticano II, ogni parrocchia aveva il suo oratorio. Oggi le chiese che possono offrire attività per ragazzi sono una su tre (ma si tratta spesso di attività sporadiche e saltuarie). Il dato più preoccupante riguarda le confessioni.

È il sacramento più in disuso negli ultimi decenni e uno studio del Centro teologico di Bologna indica come il «sacramento della penitenza», sia una buona abitudine seguita da 1 cattolico su cento (quando va bene). E ciò avviene, anche se nelle chiese, praticamente in tutte (sia nella diocesi di Torino che in quella di Ivrea), sono stati affissi da tempo, cartelli che indicano gli orari in cui i sacerdoti sono disponibili. Calo anche nella partecipazione alle messe domenicali (mentre il consumo e la produzione delle ostie negli ultimi 10 anni è più o meno stabile). Insomma, come diceva il Santo Curato D’Ars, «in questi tempi le bettole sono piene e le chiese sono vuote». Il segno meno è dunque una costante degli ultimi vent’anni, mentre nel trentennio precedente con San Giovanni Paolo II regnante, la Chiesa “militante e trionfante” da lui concepita, era corsa ai ripari grazie all’impegno dei movimenti e delle associazioni cattoliche che avevano offerto “manodopera”, specie giovanile, in tutte le diocesi, ma spesso autonoma rispetto alle dinamiche parrocchiali.

Con i due papi successivi, invece, si è tornati all’antico e Ratzinger e Bergoglio hanno posto nuovamente la parrocchia come centro di gravità della pastorale e dell’evangelizzazione, offrendo un modello di Chiesa meno liquida rispetto a quello più incisiva di Wojtyła. Non solo, gli stessi movimenti sono stati al centro di una sorta di ridimensionamento e declassamento (Comunione e Liberazione, Opus Dei, Focolarini, Carismaticici), che ne ha limitato l’azione. Una conseguenza della lotta di potere strisciante all’interno della gerarchia, ma non tra progressisti e conservatori, ma tra clericali e quei movimentisti che incarnano più fedelmente le riforme del Concilio Vaticano II, quelle espresse in “Lumen Gentium”, l’enciclica promulgata da Paolo VI.

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