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lo sciopero

"Made in Italy" non è sempre sinonimo di eccellenza e legalità: il caso Max Mara

Un gruppo di lavoratrici denuncia condizioni “disumane”, l’azienda annulla un investimento da 110 milioni di euro

Lo sciopero delle sarte di Reggio Emilia che ha fermato il maxi-progetto di Max Mara

Un piccolo sciopero ha provocato un effetto a catena che nessuno si aspettava: la rinuncia da parte di Max Mara a un progetto da 110 milioni di euro. A far scattare tutto è stata la protesta di una cinquantina di sarte della Manifattura San Maurizio di Reggio Emilia, stabilimento chiave della produzione di cappotti per il celebre marchio italiano.
Le protagoniste della vicenda sono oltre 50 donne, dipendenti di uno stabilimento da circa 200 lavoratori, quasi tutte specializzate, di mezza età, con decenni di esperienza alle spalle. Il 21 maggio hanno proclamato il primo sciopero dopo quarant’anni, denunciando condizioni di lavoro usuranti, stipendi legati alla produttività (tra i 1.300 e i 1.600 euro mensili) e un clima aziendale descritto come opprimente.
Hanno parlato di sorveglianza continua, pause controllate e addirittura di commenti offensivi sul loro aspetto fisico.

Le proteste sono sostenute dalla CGIL e dalla Filctem, che lamentano anche la mancata applicazione del CCNL del settore tessile. Max Mara risponde di applicare contratti aziendali decisamente più vantaggiosi, ma nel concreto questa scelta ha limitato la presenza sindacale in fabbrica. La situazione è resa ancora più complessa dal fatto che, non applicando il contratto collettivo nazionale, i sindacati non hanno strumenti formali per intervenire e verificare le condizioni di lavoro.

Con l’aumento dell’attenzione mediatica, è intervenuta anche il Parlamento: sono state presentate interrogazioni al Ministero del Lavoro, e in risposta, la viceministra Maria Teresa Bellucci ha confermato che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro aveva ricevuto alcune segnalazioni su “situazioni problematiche” riguardanti il trattamento del personale in azienda, e in particolare delle lavoratrici. Secondo Max Mara, si tratta però di procedimenti datati e non legati alla vertenza di San Maurizio, bensì a singoli casi individuali già conclusi. Nonostante questa precisazione, la conferma istituzionale ha alimentato sospetti e ha fatto emergere dubbi diffusi su quanto avviene all’interno di uno dei marchi di punta del Made in Italy.

Proprio mentre le proteste prendevano piede, Max Mara si preparava a lanciare il suo “Polo della moda”: un maxi-centro di 47mila metri quadrati da costruire sull’area dismessa della ex Fiera di Reggio Emilia. Il progetto prevedeva 900 posti di lavoro, di cui 300 nuove assunzioni, e una riqualificazione urbanistica con 2.000 alberi e 25.000 mq di parco pubblico. Tutto sembrava pronto, anche il piano urbanistico era stato approvato, quando il 30 giugno, esattamente nel giorno limite per il rogito, Luigi Maramotti, presidente del gruppo, ha comunicato il ritiro ufficiale dall’investimento a causa del presunto “clima di divisione e strumentalizzazione”, nato secondo l’azienda dalle parole del sindaco Massari e dal suo incontro con le lavoratrici in sciopero. Secondo fonti vicine a Max Mara, anche solo il fatto che il sindaco abbia ricevuto le lavoratrici è stato vissuto come un gesto ostile. L’amministrazione comunale ha negato ogni volontà di schierarsi, sottolineando di aver tentato il dialogo anche con l’azienda.

Max Mara è da sempre considerata un pilastro industriale e culturale di Reggio Emilia. Lo scontro in corso, che ha travolto politica locale, economia e lavoro, segna una frattura senza precedenti. Ora il progetto del Polo della moda è congelato: l’area è di nuovo in vendita e il piano urbanistico, pensato su misura per Max Mara, dovrà essere riformulato.

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