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IL LUTTO

Dai manicomi a Ivrea, oggi termina il viaggio fotografico di Gianni Berengo Gardin. Aveva 94 anni

Con “Morire di classe”, il fotografo contribuì a rompere il silenzio sull’orrore dei manicomi, aprendo la strada alla rivoluzione voluta da Franco Basaglia

Dai manicomi a Ivrea, oggi termina il viaggio fotografico di Gianni Berengo Gardin. Aveva 94 anni

Per lui la fotografia non era arte, ma responsabilità. E lo ripeteva ogni volta che qualcuno cercava di incasellarlo tra gli artisti: “Non faccio arte, documento la realtà”. È morto a 94 anni Gianni Berengo Gardin, gigante della fotografia italiana, testimone discreto e infaticabile dell’Italia del Novecento, con uno sguardo capace di fermare il tempo senza mai imporsi. Era nato a Santa Margherita Ligure, nel 1930, ma considerava Venezia la sua città d’adozione.

Da lì era iniziato tutto, con una macchina fotografica al collo e una visione chiara: restituire ciò che vedeva, senza orpelli. In oltre sessant’anni di lavoro ha lasciato un patrimonio immenso: più di due milioni di negativi, oltre 260 libri pubblicati, 360 mostre personali in giro per il mondo. Il suo sguardo rigorosamente in bianco e nero ha raccontato un Paese in trasformazione, dalle campagne del dopoguerra alla modernità industriale, dalla vita degli operai agli angoli dimenticati delle città. Ma non si limitava a fotografare: ascoltava, osservava, registrava i mutamenti. Senza filtri. Senza mai cercare la bellezza fine a sé stessa

Il suo nome è legato a uno dei reportage più duri e importanti della fotografia sociale italiana. Insieme a Carla Cerati, nel 1969, realizzò “Morire di classe”, un’inchiesta fotografica nei manicomi italiani. Quelle immagini finirono sulle scrivanie dei politici, contribuendo ad aprire la strada alla legge Basaglia. Fotografia come denuncia, come lente sull’umanità che soffre, come responsabilità verso chi non ha voce. Anche per questo Berengo Gardin amava definirsi “artigiano”, non artista. E nella sua visione l’estetica non doveva mai prevalere sul senso. “Non voglio interpretare, voglio raccontare”, diceva.

Fotografava persone, non soggetti. Coglieva momenti, non li costruiva.  Negli ultimi anni, Torino ha voluto restituirgli parte di quella attenzione che lui, per tutta la vita, ha riservato agli altri. Nel 2020, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia gli dedicò una mostra che raccontava il suo lungo sodalizio con la Olivetti di Ivrea, insieme all’Archivio Storico dell’azienda. Un percorso espositivo costruito con oltre settanta immagini d’epoca, molte delle quali mai esposte prima, che restituivano la forza documentaria del suo lavoro all’interno della “fabbrica comunità”. Berengo Gardin ha raccontato tutto questo con la solita misura: mai un passo di troppo, mai uno scatto esibito. Solo presenza e rispetto.

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