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Svolgere mansioni da OSS non è demansionamento: l’infermiera non ha diritto al risarcimento

Per la Cassazione non basta svolgere mansioni inferiori per essere demansionati. Respinto il ricorso di una dipendente dopo oltre 20 anni

Svolgere mansioni da OSS non è demansionamento: l’infermiera non ha diritto al risarcimento

Non ha diritto al risarcimento per demansionamento l’infermiera professionale che, pur avendo svolto mansioni tipiche degli operatori socio-sanitari (Oss), non ha dimostrato che queste attività fossero prevalenti rispetto a quelle proprie della sua qualifica. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso della lavoratrice contro la decisione della Corte d’Appello, confermando così la mancata sussistenza del demansionamento.
Il caso riguarda una infermiera che dal 1990 al 2013 aveva svolto, secondo quanto emerso in sede di testimonianze, attività comunemente attribuite a figure contrattualmente inferiori, come Oss e Ota: cura dell’igiene dei pazienti, cambio dei pannoloni, rifacimento letti, somministrazione dei pasti a pazienti non autosufficienti, trasporto interno nei reparti. Si tratta di compiti solitamente assegnati agli operatori socio-sanitari, figure di supporto all’assistenza di base.

Il Tribunale aveva inizialmente riconosciuto il diritto della lavoratrice alle differenze retributive per l’inquadramento inferiore, ritenendo che il contenuto delle mansioni svolte fosse incompatibile con la qualifica di infermiera professionale. Tuttavia, la Corte d’Appello ha ribaltato la decisione, sostenendo che la lavoratrice non ha fornito prove sufficienti per dimostrare che le attività di livello inferiore fossero prevalenti su quelle coerenti con la sua qualifica.

Secondo la Corte, infatti, non si è trattato di una vera e propria sottrazione delle mansioni qualificate, bensì di un affiancamento di compiti aggiuntivi, comunque complementari alla funzione infermieristica. Il fatto che un’infermiera possa svolgere alcune mansioni "elementari", se inserite in un contesto più ampio e coerente con l’assistenza al paziente, non implica automaticamente una dequalificazione. La Suprema Corte ha condiviso questa impostazione, chiarendo che, in assenza di una dimostrazione della prevalenza delle mansioni inferiori, non si configura il demansionamento. Inoltre, ha ritenuto irrilevante la questione del presunto contrasto con il codice deontologico, su cui la Cassazione non può pronunciarsi, trattandosi di materia non giuridica ma disciplinare.

La lavoratrice aveva sostenuto che le attività svolte non rientrassero affatto tra le competenze infermieristiche, richiamando la normativa che attribuisce agli Oss l’assistenza di base per l’igiene, la mobilizzazione e il benessere dei pazienti. Tuttavia, per i giudici, ciò non basta: ciò che conta è che l’infermiera abbia continuato a svolgere anche mansioni proprie del suo profilo, e che le altre, seppur più semplici, fossero accessorie e strumentali alla cura complessiva del paziente.

La decisione lascia aperta una riflessione più ampia sul confine tra integrazione di ruoli e abuso di mansioni inferiori all’interno delle strutture sanitarie. In un contesto spesso segnato da carenze di personale e sovraccarichi di lavoro, può diventare difficile distinguere tra flessibilità operativa e violazione delle qualifiche professionali. Tuttavia, dal punto di vista giuridico, la sentenza ribadisce un principio chiaro: non basta dimostrare di aver svolto mansioni inferiori, ma occorre provare che queste abbiano occupato la parte principale dell’attività lavorativa, sottraendo spazio e dignità professionale alle funzioni proprie dell’inquadramento contrattuale.

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