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LA STORIA

Jean Pormanove, la diretta infinita e il pubblico che paga per vedere morire

No, non è una puntata di Black Mirror. E' successo davvero

Jean Pormanove, la diretta infinita e il pubblico che paga per vedere morire

Jean Pormanove, la diretta infinita e il pubblico che paga per vedere morire

Di fronte alla morte, il contatore si è fermato a 298 ore: dodici giorni e mezzo di diretta ininterrotta. Non è un errore di trasmissione. È semplicemente finita così, con Raphaël Graven — o Jean Pormanove, come lo conoscevano online — steso a terra, il corpo ormai privo di vita, in un salotto arredato per l'intrattenimento, e due uomini ai suoi piedi. Era il finale.  Graven aveva 46 anni, un passato nell’esercito francese, un presente costruito tutto sui social. Era diventato noto — e poi virale — per un format estremo: video in cui subiva umiliazioni, insulti, sputi, colpi in diretta. Il tutto trasmesso principalmente su Kick, piattaforma di streaming con base australiana, cresciuta proprio grazie a contenuti “senza filtri”. Più di un milione di follower, una piccola troupe ricorrente, e una narrazione brutale: due dominano, due subiscono. L'intrattenimento era questo. Con picchi di audience e picchi di abusi. Finché qualcosa, in quel salotto di Contes, vicino a Nizza, si è spezzato per sempre. Ora la procura indaga. L’autopsia dovrà dire se Graven sia morto per le percosse, per un malore, o per altro. Ma la domanda più grande resta fuori dai verbali: si può morire per un contenuto? Nel frattempo sono stati sequestrati computer, telecamere, microfoni. Strumenti del mestiere, e potenzialmente anche prove. La società che gestiva il set — LeLokal, riconducibile a Owen Cenazandotti, in arte Naruto — è al centro dell’indagine, insieme a Safine Hamadi (Safine) e un quarto uomo, disabile, noto come Coudoux. Erano i protagonisti di un palcoscenico crudele, tra soprusi e ruoli che sembravano assegnati, ma che ora si devono rileggere sotto la lente del codice penale. Perché la questione vera è se Jean Pormanove avesse scelto, oppure no, quel copione. Secondo Le Monde, i video raccontano una storia che va oltre la performance: schiaffi, strangolamenti, sputi, liquidi versati addosso, minacce. In uno di questi, si sente Graven dire che lo faceva per soldi. In un altro, gli viene ordinato di dichiarare che, se fosse morto, la colpa sarebbe stata della “sua salute di merda”, non di chi gli stava intorno. È accaduto qualche giorno prima che morisse. Nel mondo dello streaming, tutto ha un prezzo. Kick offre introiti più alti rispetto a Twitch o YouTube: trattiene appena il 5% delle donazioni, contro il 30 o il 50 delle piattaforme concorrenti. E per chi guarda, ogni gesto — anche il più degradante — può diventare oggetto di scommessa. Alla fine dell’ultima live, il contatore dei guadagni segnava 36 mila euro. La morte in diretta, a quanto pare, valeva quello. Non è la prima volta che accade. A dicembre, già Mediapart aveva denunciato contenuti simili: abusi su persone fragili, pubblicati come intrattenimento. La procura di Nizza aveva aperto un fascicolo: incitamento all’odio, violenza di gruppo, diffusione di atti persecutori. Tutti gli accusati si erano detti innocenti. Anche Graven, interrogato, aveva negato di essere vittima. Forse perché pensava di avere il controllo. O forse perché era troppo tardi per uscire. Clara Chappaz, ministra francese per il Digitale e l’Intelligenza Artificiale, ha usato parole nette: «Umiliato e maltrattato per mesi, in diretta». Ma il punto non è solo cosa è successo. È quante persone lo hanno guardato accadere, pagando, commentando, incitando. A un certo punto, questo non è più stato solo un format. È diventato un esperimento sociale degenerato, un episodio reale di Black Mirror, con meno effetti speciali e più sangue vero. E il riflesso nello schermo, questa volta, non era quello della tecnologia. Ma il nostro.

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