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IL PROCESSO

Morte di Moussa Balde al Cpr di Torino: la madre in aula, due imputati per omicidio colposo

La famiglia si è costituita parte civile, assistita dagli avvocati Gianluca Vitale e Laura Martinelli. Due le persone a processo: Annalisa Spataro, responsabile della struttura, e Fulvio Pitanti, medico in servizio in quei giorni. L’accusa è di omicidio colposo

Morte di Moussa Balde al Cpr di Torino: la madre in aula, due imputati per omicidio colposo

È stato il giorno della madre. Di Djenabou, arrivata dalla Guinea per guardare in faccia la giustizia italiana e capire come sia stato possibile che suo figlio, Moussa Balde, sia morto a 23 anni in una stanza d’isolamento del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Torino. Era maggio 2021. Moussa era stato appena aggredito a sprangate a Ventimiglia. Ferito, fu portato non in ospedale, ma direttamente al Cpr. Tre giorni dopo, si tolse la vita. La famiglia si è costituita parte civile, assistita dagli avvocati Gianluca Vitale e Laura Martinelli. Due le persone a processo: Annalisa Spataro, responsabile della struttura, e Fulvio Pitanti, medico in servizio in quei giorni. L’accusa è di omicidio colposo. Moussa era arrivato in Italia nel 2015, passando per la Francia. Una vita segnata dalla precarietà, tra spostamenti continui e assenza di documenti. Viveva per strada, affidando la possibilità di contattare la famiglia alla memoria dei numeri telefonici. Secondo i pm Giovanni Caspani e Rossella Salvati, l’isolamento in cui è stato collocato all’interno del Cpr – nella cosiddetta “cella pollaio” – non era né giustificato né gestito in modo idoneo. Nessun supporto medico reale, nessuna vigilanza adeguata, nessuna possibilità di comunicare all’esterno. La procura ha depositato un audio WhatsApp in cui Spataro, parlando con la garante dei detenuti, Monica Gallo, affermava: «Adesso gli spostamenti li faccio io», riferendosi a due persone trasferite in “area rossa” senza verificarne l’identità. Eppure, in aula, ha provato a minimizzare il proprio ruolo: “Gestivo la logistica. Non potevo oppormi a quanto deciso dal pubblico ufficiale”. La versione di una ex tirocinante è cambiata più volte nel corso delle indagini. In un primo momento aveva attribuito la decisione dell’isolamento al medico. Poi, due mesi dopo, al commissario di polizia Francesco Gigante. La procura ha chiesto per lei l’invio degli atti per falsa testimonianza. In aula ha parlato anche il fratello, Thierno Balde: “Moussa non aveva casa, non aveva telefono. Quando incontrava altri guineani, chiedeva loro di farci sapere che stava bene. L’ultima videochiamata ce lo mostrava stanco, con i capelli lunghi. Disse che non poteva tagliarli: ‘Fa troppo freddo’, rispose alla mamma. Poi, più nulla”. La madre, con voce spezzata, ha ripercorso l’ultimo contatto: “Durante il Ramadan ci siamo sentiti. Mi disse che non digiunava, stava male. Era l’ultima volta che lo sentivo. La notizia della morte non è arrivata dalle autorità italiane, ma da un amico”. Davanti al Palazzo di Giustizia, per tutta la mattinata si è tenuto un presidio promosso dalla rete No Cpr, con striscioni e cartelli: “Verità per Moussa”, “Contro ogni gabbia”. Il messaggio è chiaro: il caso di Moussa non è un’eccezione, ma il simbolo di un sistema che, secondo gli attivisti, produce esclusione e violenza istituzionale. All’inizio dell’udienza, l’avvocato Vitale ha letto un comunicato della rete Pro Pal, che ha collegato la vicenda del giovane guineano alle richieste di giustizia internazionale, con un riferimento alla situazione in Gaza e Cisgiordania: “È giusto che nei luoghi dove si fa giustizia si ricordino anche altri crimini, nell’auspicio che un giorno possano essere processati”.

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