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CRONACA GIUDIZIARIA
27 Ottobre 2025 - 04:40
Era un lavoro di routine, uno di quelli che non fanno paura perché li hai fatti mille volte. Ma quel 16 maggio 2019, nella Trattoria del Ponte di Rivara, la macchina del caffè da sostituire è diventata una trappola. Antonio Perissinotto, 59 anni, tecnico con trent’anni di esperienza, è rimasto folgorato davanti al figlio Valerio. Lui ha tentato di salvarlo, ed è rimasto ferito. Oggi, nell’aula del tribunale di Ivrea, si cerca di capire chi doveva evitare che accadesse. Sul banco degli imputati siede Roberto Calvo, 57 anni, titolare della Dicaf di Bra, l’azienda che forniva e installava le macchine del caffè. È accusato di omicidio colposo e lesioni personali. Davanti alla giudice Marianna Tiseo, con la pm Valentina Bossi in aula, la difesa — l’avvocato Stefano Caniglia — parla di “tragica fatalità”. Secondo lui, la causa della scossa sarebbe stata una prolunga artigianale costruita in modo errato dallo stesso Perissinotto. Il rapporto tra i due tecnici e la ditta era solo verbale: nessun contratto, nessun protocollo di sicurezza. Il 16 maggio Antonio e Valerio erano arrivati nel bar per montare una nuova macchina, modello Vega, al posto di quella guasta. Le telecamere interne hanno ripreso tutto: l’uomo che lavora dietro il bancone, la scossa improvvisa, il corpo che si irrigidisce, il figlio che interviene, poi la corsa disperata dei titolari verso il contatore. Ma era già troppo tardi. L’impianto elettrico del locale, hanno accertato i tecnici dello Spresal dell’Asl To4, non era a norma: la presa era a 220 volt, la macchina doveva essere collegata a 380. Nessun salvavita, solo un magnetotermico, utile a proteggere l’impianto, non le persone. “Da 380 a 220 non si poteva passare”, ha spiegato in aula l’ispettore Simone Gaida. Il nodo del processo è tutto nella catena delle responsabilità. La Dicaf non aveva verificato la formazione dei tecnici, né consegnato il manuale d’uso e manutenzione. Documenti che il costruttore Vega forniva solo a chi aveva frequentato corsi specifici. Per l’accusa, quella mancanza di regole, di carta e di controlli, è la radice della tragedia. Il procedimento, aperto per omicidio e lesioni colpose, era partito con più imputati. Il titolare del bar, Giuseppe Lo Zito, ha già scelto il rito abbreviato: assolto dall’accusa di omicidio, condannato per le lesioni al figlio. La sentenza è definitiva. In aula, Valerio Perissinotto ha parlato per la prima volta. La voce ferma, il corpo segnato. «Dopo l’incidente non sono più lo stesso. Ho lasciato il lavoro, ora studio fisioterapia. Ho perso parte della mia mobilità, ma soprattutto mio padre». Ha una disabilità del 20 per cento, risarcita dall’assicurazione del locale, ma non dal dolore. La difesa dell’imputato insiste sulla colpa esclusiva della vittima: «Ha costruito una prolunga invertendo i cavi, e quando ha toccato la parte metallica ha provocato il cortocircuito. Non c’è nesso con il manuale mancante o con la tensione sbagliata». E anche un salvavita, aggiunge l’avvocato Caniglia, non avrebbe cambiato l’esito: «Scatta dopo quattro decimi di secondo. La scarica è stata immediata». Prossima udienza a marzo.
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