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IL FATTO
20 Dicembre 2025 - 19:32
«Svelto, entra». Un uomo afferra la giacca di un altro e lo tira dentro, giusto un attimo prima che una bottiglia di birra, lanciata ad altezza d’uomo, si frantumi dove fino a un secondo prima c’era una testa. Gli occhi bruciano, diventano rossi. Il respiro si accorcia. L’aria è acre, irrespirabile. Pochi metri più avanti, sempre su corso Regina Margherita, in un portone aperto in fretta, un uomo è accasciato sulle ginocchia. Ha un fazzoletto di carta premuto sulla bocca, prova a inspirare piano. Accanto a lui un altro uomo e una donna sono nelle stesse condizioni. Tossiscono, cercano di riprendersi. Non parlano quasi. Non ce n’è bisogno. All’ingresso del palazzo c’è un signore. Abita lì. È lui che ha aperto quella porta, quando ha visto la gente scappare. Non è rimasto a guardare dal balcone, non ha filmato con il telefono. È sceso in strada. Ha fatto la cosa più semplice: ha dato riparo. Passa fazzoletti, bottiglie d’acqua. Dentro quel portone finiscono cittadini qualunque. Persone che non c’entrano nulla. Stavano passando di lì per caso, nell’ultimo sabato prima di Natale, tra pacchi e commissioni, tra una vetrina e un pensiero alle feste. Si sono ritrovati in mezzo a lacrimogeni, idranti, pietre, bottiglie, oggetti che volano senza guardare chi colpiscono. Fuori è il caos, dentro è una tregua improvvisata. Nessuna bandiera, nessuno slogan. Solo mani che aiutano altre mani. Il signore del palazzo guarda uno a uno quelli che entrano, cerca di capire se qualcuno sta peggio. «Se hai bisogno di qualcosa, dimmi come posso aiutarti». È una frase semplice, detta a sconosciuti. Ma in mezzo al fumo e alla violenza suona come l’unica cosa sensata rimasta in strada.
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