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10 Aprile 2022 - 08:10
Quattordici metri sotto il suolo di Torino c’è una corona di fiori rossi e bianchi, i colori della bandiera del ducato dei Savoia. Lì, a 40 passi dalla scala di fuga che stava per essere invasa dai francesi durante l’assedio di Torino del 1706, fu ritrovato il corpo di Pietro Micca, il soldato dell’esercito sabaudo che fece esplodere il passaggio diventando simbolo di eroismo e sacrificio. «Fece il suo dovere in modo eccellente» ci racconta il Generale di corpo d’armata Franco Cravarezza, direttore del museo Pietro Micca ed esperto della rete di gallerie sotterrane alla Cittadella, dove trovarono rifugio migliaia di torinesi durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Ancora oggi, camminando tra quei cunicoli stretti, si ha l’impressione di fare un salto indietro nel tempo.
Generale, quanto è attuale in questo momento la storia di Pietro Micca?
«Non so se sia attuale, Pietro Micca fu un giovane soldato che fece una scelta. Poteva salvarsi, ma scelse di fare il suo dovere. Non era certo un suicida, ha fatto di tutto per salvarsi, ma aveva un compito da svolgere e pur di riuscire a raggiungere il suo scopo è caduto».
Una vicenda di eroismo non comune…
«Diciamo che molti arrivano al Museo attratti dall’idea di visitare le gallerie, di andare sottoterra, ma poi quando sentono la storia di Pietro Micca si emozionano, lo vedo nei loro volti. Sentono una comunanza di valori, come quello di fare del bene per la propria collettività. Pietro Micca in questo senso agì in modo eccellente e non sono leggende».
Quali prove abbiamo che testimonino l’accaduto?
«Il fatto è stato oggetto di un resoconto dettagliato da parte di un comandante della difesa di quell’epoca, che interrogò l’unico testimone che era con Pietro Micca nelle gallerie. Si trattava di un ragazzo che venne mandato via prima dell’esplosione e raccontò di come Pietro Micca lo avesse salvato da morte certa. Il comandante all’inizio era scettico. Dopo quasi 100 giorni di assedio, non voleva che si creassero aspettative fasulle in città, ma dopo aver ascoltato quella testimonianza diretta si convinse».
Che fine fece il corpo di Pietro Micca invece?
«Non lo sappiamo. Dopo lo scoppio, non si poté accedere subito alle gallerie. Il corpo venne ritrovato dopo qualche giorno, quando i vapori nocivi si erano dissolti. Lo trovarono all’inizio di settembre e la guerra finì il 7. Morti ce ne erano centinaia ogni sera. Erano le fasi più cruente dell’assedio. Qualcuno racconta che lì vicino ci fosse una fossa comune, ma dove sia il suo corpo resta un mistero».
Come nasce l’idea di istituire un museo alla sua memoria?
«In realtà il museo nacque come mostra temporanea, doveva durare solo sei mesi. Si fonda su una convenzione tra quattro enti: Ministero della Difesa, Esercito Italiano, Agenzia del Demanio e il Comune di Torino. Poi nel 1961 ci fu il centenario dell’Unità d’Italia e il comitato decise di valorizzare la figura di Pietro Micca come simbolo di eroe popolare, fu uno dei primi».
Le gallerie. Sono un tesoro per la città, ma tanti torinesi non le hanno mai visitate…
«Sono un patrimonio sotterraneo straordinario. In gran parte sono rimaste integre anche dopo la distruzione della Cittadella, che venne rasa al suolo nella seconda metà dell’800. A quel tempo la fortificazione non aveva più ragioni operative di esistere. E soprattutto la città di Torino aveva una esigenza di allargamento demografico. Tutto quello che c’era sopra terra sparì. Si salvarono solo le gallerie».
Quante sono?
«In tutta la città se ne contano 21 chilometri. Quattordici solo attorno alla Cittadella. Ne costituivano una ramificazione di tipo offensivo e difensivo che si trovava a sette e 14 metri sottoterra. Sotto il museo abbiamo circa sei chilometri di gallerie, 500 metri sono visitabili».
Quando Torino rivalutò questo patrimonio storico?
«Le gallerie vennero riscoperte durante la costruzione del Palazzo Scuola di Guerra, in corso Vinzaglio 6, grazie all’intervento del colonnello topografo Pietro Magni che non permise più a nessuno di toccarle. Più tardi, nel 1956, fu il capitano Guido Amoretti a preoccuparsi del fatto che i lavori di costruzione del Palazzo delle Entrate distruggessero le gallerie. Cercò in ogni maniera di bloccare quello scempio. Era difficile fermare un lavoro di tale portata, allora cercò nelle gallerie qualcosa che gli desse un motivo per fermare i cantieri. Fu allora che trovò la vera scala di Pietro Micca. Una scoperta eclatante che salvò le gallerie. Era il primo ottobre 1958 e fortuna vuole che, nel ’61, ci fu il centenario dell’Unità d’Italia e venne fondato il museo».
Chi si occupa di tenere aperte, pulite e in ordine le gallerie?
«Il museo Pietro Micca è una piccola realtà organizzativa. Attualmente c’è il direttore che sono io, scelto all’interno dell’esercito per garantire la convenzione di cui parlavamo. Poi ci sono tre dipendenti fissi del Comune e oltre 20 guide volontarie dell’Associazione Amici del Museo Pietro Micca. Sono costantemente in servizio. Lavoriamo 52 settimane l’anno. Chiudiamo solo a Capodanno, Pasqua, Primo Maggio e Natale. Tutte le altre domeniche siamo aperti con visite guidate. Ci mettiamo tutta la passione possibile».
Cosa vi servirebbe?
«Ci servirebbe più personale e dei fondi per rendere il museo più moderno. Da circa due anni abbiamo lanciato una “sfida” all’accessibilità. Stiamo lavorando a percorsi di visita virtuale».
Le gallerie furono utilizzate anche come rifugi antiaerei durante la Seconda Guerra Mondiale, è vero?
«Sì, nel periodo 1943-45 Torino fu bombardata duramente e il Comune si attrezzò costruendo dei rifugi pubblici. Ma non bastavano. Così le gallerie di Pietro Micca, soprattutto quelle che si trovavano a 14 metri sottoterra, divennero un ottimo rifugio antiaereo. Si crearono i cosiddetti “rifugi casalinghi” a disposizione di un gruppo di case da cui si accedeva tramite una cantina».
Ci può fare un esempio?
«Sicuramente la fortezza del Pastiss, che quest’anno compie 450 anni dall’inizio della costruzione. Si entrava attraverso le cantine di un bel palazzo di via Papacino 2, che riporta una grande R bianca sopra. Nel 1942 fu fatta una scala che dal palazzo arrivava alle gallerie. Il 25 aprile facciamo visitare quel percorso».
Quanti torinesi trovarono riparo nelle gallerie di Pietro Micca?
«Hanno trovato soccorso circa 6mila persone, per due anni di seguito. Di recente abbiamo ritrovato una bottiglietta tappata con dentro due biglietti a firma di quattro famiglie che si erano rifugiate nelle gallerie datato “ultimo giorno di guerra”. Ci piacerebbe ritrovare queste persone. I nomi sono: Buscaglione Ofelia, Bianchi Carlo, Panati Giuseppe e Giuliani Lanciotto. Vorremmo poter parlare con le famiglie che si sono rifugiate lì dentro. Abbiamo lanciato un appello a contattarci».
Venendo all’attualità. Le gallerie potrebbero essere utilizzate anche oggi in caso di conflitto bellico?
«Mi auguro che non serva, ma le gallerie saranno sempre al servizio dei torinesi. In Ucraina abbiamo visto persone correre a nascondersi nei tunnel della metropolitana e nelle cantine. Ecco, dobbiamo pensare che è esattamente quello che fecero migliaia di torinesi con le gallerie nella Seconda guerra mondiale».
Cosa ne pensa del fatto che i giovani siano contrari al servizio di leva?
«Anche prima non si andava con piacere a fare il militare, ma le attuali operazioni belliche sono così complicate che non bastano pochi mesi di preparazione per farle bene. Servono militari professionisti. Per questo la leva è stata sospesa. Comunque, chiedono di fare il militare molti più giovani di quelli che possiamo prendere. Ci sono migliaia di richieste per fare la leva temporanea. I giovani sono affascinati dalla vita militare, piena di valori. È logico che fare il lavoro gratis non attira, ma la professione militare è ambita e seguita. Io ne sono un esempio. Ho vissuto 42 anni di servizio con tanti bei ricordi».
Ecco, nel ruolo di Capo di Stato Maggiore ha concorso in tutte le principali missioni all’estero, in particolare nei Balcani, in Afghanistan e Iraq. Come vede il conflitto in Ucraina?
«È una immane tragedia, come lo sono tutte le guerre. Soprattutto in una civilissima Europa come quella che conosciamo. Ma va detto che c’è moltissima disinformazione. Se c’è una guerra, è sempre colpa di più persone. In ogni caso, se i russi smettessero di combattere domani, finirebbe la guerra. Se invece smettessero di combattere gli ucraini, come molti vorrebbero, finirebbe l’Ucraina. Chi vuole la pace deve chiedere ai Russi di fermarsi, non agli ucraini di arrendersi».
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