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Cosa sono gli extraprofitti e qual è la strategia del Governo per coinvolgere le banche nella Manovra 2026

Contributi sì, prelievo straordinario no. Cosa significa davvero

Giancarlo Giorgetti Ministro dell'Economia e delle Finanze

Giancarlo Giorgetti Ministro dell'Economia e delle Finanze

Durante l’iter di approvazione della Legge di Bilancio 2026, il tema degli extraprofitti bancari è stato oggetto di forte dibattito nella maggioranza. Alla fine, la tassa esplicita sugli extraprofitti non è stata inserita nel testo finale approvato dal Consiglio dei Ministri.

L’intesa raggiunta prevede però che le banche contribuiscano alle casse dello Stato tramite meccanismi alternativi. Il ministro dell’Economia Giorgetti ha infatti spiegato che, al posto di un’imposta diretta, si applicheranno tre principali interventi:

  • un aumento di 2 punti dell’Irap per le imprese del settore finanziario

  • una revisione del regime contabile per i crediti deteriorati, con deduzioni spalmate su più anni anziché immediatamente

  • una limitazione del riporto fiscale delle perdite, cioè l’impossibilità di usare completamente le perdite pregresse per annullare imponibile futuro.

Inoltre, è prevista una disposizione che permette alle banche di “liberare” utili accantonati, applicando per essi un’aliquota più favorevole (27,5%) solo se decidono di distribuire tali utili, anziché una tassazione automatica del 40%. Questo approccio — un contributo volontario ma regolamentato — è visto come un compromesso tra la necessità di reperire risorse e quella di non scontentare il settore bancario, che riveste un ruolo cruciale per stabilità finanziaria e credito.

Ma cosa sono gli extraprofitti e perché sono un tema così ricorrente?

Nel dibattito fiscale ed economico, il termine extraprofitti indica quei guadagni “straordinari” che superano la normale redditività di un’attività aziendale. In teoria, si tratta di utili che non derivano da una gestione ordinaria, ma da condizioni eccezionali del mercato — per esempio tassi di interesse molto elevati, scelte di politica monetaria, variazioni improvvise nei prezzi di materie prime o energia, o situazioni di forte asimmetria informativa.

L’idea di imporre una tassa sugli extraprofitti è quella di recuperare parte di questi utili extra per finanziare spese pubbliche urgenti (come investimenti infrastrutturali, sanità, sostegno sociale). È una misura spesso dibattuta in periodi di crisi o quando i margini aziendali crescere rapidamente grazie a fattori esterni, non per meriti gestionali. Nella prassi, attuare una tassa sugli extraprofitti non è semplice: occorre definire la base imponibile (cioè quale parte del profitto è «extra»), stabilire un meccanismo di calcolo e garantire che non risulti penalizzante per chi già opera in condizioni difficili. Nel caso delle banche, il concetto è reso ancora più complesso dal fatto che molte imprese finanziarie possono compensare utili e perdite nel tempo, e i risultati dipendono da variabili macroeconomiche (tassi, crediti deteriorati, politiche di svalutazione).

Anche questa volta lo scontro politico è stato acceso, in particolare tra le forze della maggioranza: la Lega spingeva per una misura più forte verso le banche, mentre Forza Italia ha posto il veto su tassazioni obbligatorie, definendole potenzialmente dannose per il sistema finanziario. Alla fine, il risultato è un punto di equilibrio: niente tassa diretta sugli extraprofitti, ma strumenti che obbligano le banche a partecipare al finanziamento della manovra.

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