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Quegli operai carne da macello

ipca

Forse è l’eredità peggiore dell’Italia del boom, quella che, cercando di scrollarsi le miserie e il ricordo delle ferite della seconda guerra mondiale, correva e produceva senza porsi tante domande. Anni in cui nelle fabbriche che spuntavano come funghi la parola “sicurezza” era riservata soltanto agli addetti con il cappello con la visiera e il distintivo appuntato sulla divisa. A nessuno, o quasi, interessava l’altra sicurezza, quella degli operai, che spesso lavoravano in condizioni purtroppo simili a quella dell’Inghilterra della rivoluzione industriale e che toccavano e respiravano ogni giorno sostanze mortali. Vengono ancora i brividi al pensiero di quello che capitava negli stabilimenti Eternit o Capamianto. E soprattutto a quello che avveniva dopo, quando gli operai arrivavano a casa e pisciavano rosso. Era sangue. Gli operai che lavoravano all’Industria Piemontese dei Colori di Anilina, non a caso, erano stati ribattezzati “pissabrüt”. Dal 1950 alla fine degli anni ‘70 il tumore alla vescica ne ha uccisi 168. Lo stabilimento dell’Ipca di Ciriè era un enorme girone infernale. E lo è ancora. Perché quella fabbrica della morte è lì, abbandonata e aperta a tutti, con le sue storie e i suoi veleni. L’unica consolazione è che nel 1977 i titolari e i dirigenti dell’Ipca furono condannati per omicidio colposo e che quel processo aprì le porte alle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro. Una svolta che adesso rischia di essere annacquata da una sentenza della Cassazione che mette a rischio i processi e le inchieste dei pubblici ministeri sui decessi avvenuti prima del 2010. Con l’incubo di trasformare di nuovo gli operai in carne da macello.

deferrari@cronacaqui.it

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