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Il disagio esibito

Cellulare

Fonte: Depositphotos

L’errore maggiore, quando si parla di disagio, è credere che questo non si veda, che la sofferenza o le pulsioni criminali siano invisibili. O che ci siano elementi rivelatori da cogliere, come si fa in tanti casi, dai disegni dei bambini alle elementari, tra le righe strazianti di un tema divenuto una sorta di messaggio in bottiglia, o nei televisori a maxischermo nelle case modeste. Tutti scogli su cui si arena la nostra modesta sociologia d’accatto, la barchetta dei benpensanti e via discorrendo. Il disagio è visibile, eccome, su questi social network che da intrattenimento sono divenuti elemento essenziale delle vite di tanti, in particolare dei più giovani, molti dei quali autentici nativi digitali. Su Instagram scorrono le storie fotografate dei giovani di periferia (ma non solo) che esibiscono tatuaggi di tribù metropolitane, pistole che sparano (e speriamo siano davvero a salve), coltelli, persino i video dei processi subiti. C’è l’esibizione di una rabbia, in tanti casi, della sfrontatezza in molti altri. In una distorsione che va oltre il linguaggio figurato di certa musica, vista dai superficiali come manifesto di sentimenti violenti, quando invece ha una doppia valenza: fruttare denaro a chi la fa (per vivere), illudere con messaggi che sono solo finzione coloro che scelgono di credervi. Una volta per certi episodi si accusavano i film dell’orrore o i cartoni animati giapponesi, prima ancora il rock, poi il mondo si è evoluto. L’autoincriminazione tramite social è qualcosa che tradisce i giovani bulli di periferia così come i latitanti più sfrontati, basta leggere le cronache. Eppure sembra una necessità, come una maniera di dire «attenti, io esisto. E sto arrivando».

andrea.monticone@cronacaqui.it
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