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Quel fiore assassino

Sunset over field with Red poppies

Sunset over field with Red poppies

Il papavero. C’è sempre questo fiore dietro le storie antiche, e recenti, dell’Afghanistan. Il fiore che sboccia, colora le pianure e infine lascia trasudare il lattice che poi si trasforma in resina scura dal odore dolciastro e dal sapore amaro: l’oppio. Ed è qui che gli americani, nonostante investimenti miliardari in dollari (quasi 10) hanno perso la loro battaglia. La lotta contro la coltivazione del Papaver somniferum (papavero sonnifero) non ha dato risultati, così come non si sono fermati i dazi imposti dai talebani sul passaggio di carburanti e sigarette sui valichi di montagna. Un mare di quattrini che, anno dopo anno, ha portato le coltivazioni illegali a moltiplicarsi, dopo la debacle del 2000 e del 2001. Basta dire che l’anno scorso le piantagioni di oppio hanno interessato 224mila ettari, contro i 160mila del 2019. Con profitti enormi, ovviamente esentasse. Soldi necessari ai guerriglieri per pagare uomini, armi sofisticate, mezzi d’assalto. La prova che tutto era già pronto per la guerra lampo condotta contro l’esercito regolare, quello addestrato dagli Usa, molto tempo prima che suonasse la fanfara della ritirata ordinata da Biden, onorando la promessa di Trump. Dunque non facciamoci illusioni, mentre una parte del mondo allarga le braccia ai profughi che laggiù rischiano la morte, che l’Afghanistan non si trasformi in un narco-Stato. Lo è già. E in taluni territori ha continuato a esserlo continuando ad arricchire i signori della guerra, in questi ultimi venti anni. Dunque poco valgono le parole del portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid che tenta di rassicurare le comunità internazionali affermando che «Non verrà prodotta nessun tipo di droga e nessun Paese sarà coinvolto nel traffico di stupefacenti». L’oppio è il padre dell’eroina e della morfina. E, purtroppo, anche la linfa vitale del terrorismo.

beppe.fossati@cronacaqui.it
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