l'editoriale
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09 Giugno 2022 - 08:51
Se un telescopio ci permette di vedere vicino ciò che è lontano, a capovolgerlo si allontana ciò che è troppo vicino? Come se la letteratura, la scrittura più che altro fossero la mediazione, la distanza tra il dolore altrui, tra la testimonianza vivente e l’idea che si renderebbe piacevole o accettati per un mondo in cui «l’empatia è sopravvalutata»?
Più che di un telescopio, del quale siamo tutti dal lato sbagliato, ossia quello che permette di avvicinare il lontano, bisognerebbe parlare di caleidoscopio: un rutilante alternarsi di colori, voci, memoria e dolore, frammenti che si ricompongono, figure intere che si frantumano, per “Il lato sbagliato del telescopio” (La nave di Teseo, 20 euro, traduzione di Licia Vighi) di Rabih Alameddine, collezionista a pieno merito di titoli, dal PEN/Faulkner Award for fiction 2022, al Prix Femina Étranger e al Premio Dos Passos. Una storia intensa eppure poetica, disperata e disperante, irrimediabilmente perduta in una lingua che è pittura - Alameddine è inizialmente un pittore - e minuziosa ispezione del dolore.
Siamo a Lesbo, l’isola che ospita uno dei campi profughi più famigerati, vera vergogna d’Europa. Qui, arriva dagli Stati Uniti la dottoressa Mina Simpson, di origine siriana, a suo modo una donna due volte rifugiata: per essere cittadina di un altro Paese, fuggita dal proprio, e per essere accolta infine in un corpo e in una identità che corrispondono al suo cuore al suo sentire, perché Mina era nata uomo. Rinnegata dalla sua famiglia, tranne che da uno dei fratelli, si rende conto che, a Lesbo, è più vicina di quanto mai sia stata nei decenni alla sua terra d’origine: non abbastanza vicina da vedere, ma abbastanza da non poter ignorare.
Lavorando per una Ong con i rifugiati, Mina incontra una famiglia in fuga, con una bimba piccola e con la madre gravemente malata. È questo il legame forte che si stabilisce e che ci fa andare avanti e indietro, come un costante tentativo di messa a fuoco, nell’esistenza e nei pensieri di Mina. La quale, in un intercalare nel racconto, si rivolge spesso a un «tu» che è presente e assente al tempo stesso, è lo scrittore che raccoglie le storie dei siriani, come lui, in fuga ma non trova la chiave, la forza di scrivere un romanzo. E allora insiste che sia Mina a farlo. Reale o meno, lo scrittore è metapersonaggio che dà vita a Mina e in lei si fonde.
Caleidoscopio, si diceva. Perché è meravigliosa la galleria che ci accompagna, da Francine moglie di Mina, al travestito in un vestito corto nell’alba fredda con una gattina calico in braccio - immobile e inamovibile, ché aver cura della micia è più importante di ogni urgenza del mondo, così come abbracciare un altro essere umano lì nell’inferno dei profughi -, alla madre malata, alla piccola Asma, per la quale - per la Asma del futuro, o di un mondo diverso - questa storia va narrata. Una narrazione affascinante in cui, alla fine, anche chi se n’è chiamato fuori, è costretto a immergersi.
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