l'editoriale
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29 Dicembre 2022 - 08:36
Nel momento in cui scrivi una cosa come «le narrazioni working class si propongono di contribuire alla costruzione di un nuovo immaginario», più che un saggio stai facendo un manifesto. Come è ben chiaro dopo: «Detta così la sfida è immane. Ma non siamo soli: i conflitti sociali, mai sopiti, solo deviati, sono il vento che può riattizzare la fiamma. Finché ci sarà lavoro, ci sarà sfruttamento e ci saranno interessi contrapposti. I nostri racconti servono a infondere coraggio e orgoglio. A trovare un sentiero tra le macerie».
A scrivere così è Alberto Prunetti, autore di romanzi come “Amianto. Una storia operaia”, ma anche traduttore, redattore di riviste culturali, nel suo “Non è un pranzo di gala” (Minimum fax, 15 euro), uno studio sulla letterature cosiddetta “working class”, utilizzando la definizione anglosassone proprio perché all’estero esiste ed è “codificata” o almeno riconosciuta, mentre in Italia è ancor meno che di nicchia.
Bisogna intendersi sul significato di ciò che viene definito «uno spettro si aggira nel mondo delle lettere», quello di «una letteratura che racconta il mondo del lavoro dall’interno, fatta da scrittrici e scrittori di estrazione proletaria o appartenenti alla nuova classe lavoratrice precaria. Una letteratura che può avere forme, lingue, strutture e scopi diversi da quelli perpetuati nelle scuole di creative writing». Quindi una letteratura fatta solo di autori di estrazione non borghese? E che succede se un autore borghese scrive un romanzo sulla condizione operaia, o dei precari ma parlandone con cognizione di causa e non come se compilasse una sorta di ricerca antropologica, come se i lavoratori fossero esseri poggiati su vetrini da microscopio?
Tutti interrogativi che Prunetti splendidamente si pone, andando ad analizzare e presentarci autori e autrici da scoprire, svelando crudelmente il paradosso per cui la letterature - specie la narrativa - è sempre questione di classe superiore, anche solo per linguaggio e codici: lo scrittore proletario, per riuscire ad avere il successo necessario a vivere del suo lavoro, devi uniformarsi a una specie di élite autoreferenziale. E così, se non fosse divenuto il fenomeno che è, “L’amica geniale” sarebbe una saga working class... Di norma i romanzi che parlano di lavoratori - comuni, non scrittori, professori, giornalisti, ingegneri ecc - lo fanno nell’ambito di tragedie o disgrazie che siano contrattuali o di malattie. All’estero, ci sono opere in cui si vede la working class nelle attività quotidiane, un po’ come i fumetti di Andy Capp di Reg Smithe o il Tommy Wack di Hugh Morren. Il film “Hooligans” - al di là che si salva il personaggio sbagliato, un privilegiato aspirante giornalista, l’inutile “Frodo” Elijah Wood - diventa narrazione working class, come “Il mio amico Eric” di Ken Loach, ossia «la bellezza del tempo vivo fuori dal lavoro morto».
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