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«A Bardonecchia c’è una ‘ndrina»: preso il nipote del boss Lo Presti

Sigilli

(foto di repertorio)

Forse la ‘ndrangheta non ha mai lasciato la Val di Susa. In realtà la morte dello “storico” boss Rocco Lo Presti nel 2009 non aveva mai illuso gli investigatori ma le parole di due pentiti hanno confermato quello che era solo un sospetto, indicando anche colui che potrebbe aver raccolto almeno in parte l’eredità di Lo Presti: suo nipote, Giuseppe Ursino, già coinvolto in più inchieste sulla criminalità organizzata.

«Mio padre mi disse di avere dato doti a Giuseppe Ursino - sono le parole di Domenico Agresta - e mi ha specificato che lui è di Bardonecchia. Con questa espressione noi intendiamo che uno appartiene al locale di quel luogo». «Lo Presti comandava tutto - ha spiegato invece Antonio Femia -. Ora comanda Pino (Ursino ndr) che si fa pagare per ogni cosa, anche per far passare una strada. Non ricordo però se a Bardonecchia ci sia una locale o una ‘ndrina».

Le parole dei due pentiti si possono leggere nell’ordinanza di custodia cautelare con la quale ieri i carabinieri del nucleo Investigativo hanno arrestato proprio Giuseppe Ursino, 49 anni, e Ercole Taverniti, 43 anni. I due in realtà sono rimasti coinvolti nelle indagini nate con l’operazione Big Bang, relative ad altre locali operative sul territorio torinese ma dalle dichiarazioni dei pentiti e da alcune intercettazioni emerge, inequivocabile, la presenza di una locale anche in Val di Susa.

Non a caso, i militari ieri hanno anche messo i sigilli al ristorante Tre Torri di via Medail a Bardonecchia, ceduto nel 2016 da una società in cui compariva come socia la sorella di Lo Presti alla Tre Torri srl «amministrata di fatto anche da Ursino Giuseppe, quantomeno socio occulto della stessa». Sigilli per lo stesso motivo anche ad altri due locali: il Mambo Cafè di via San Quintino a Torino e il Lettera 22 di Alpignano.

Ursino e Taverniti dovranno rispondere, a vario titolo, di associazione a delinquere di tipo mafioso, estorsione con l’aggravante del metodo mafioso, trasferimento fraudolento di valori. L’inchiesta, che conta anche altri tre indagati, è un “ramo” di quella che coinvolse la locale di San Mauro e la famiglia Crea, e mette in luce soprattutto l’attività estorsiva tipica della criminalità calabrese.

Spicca, ad esempio, la drammatica vicenda di un imprenditore che si rivolse alle cosche per recuperare un credito da 90mila euro. Soldi in effetti riavuti ma da quel momento l’uomo divenne schiavo dell’organizzazione, arrivando a pagare 500mila euro e a regalare auto e immobili ai suoi estorsori. Tanto che, ormai disperato, provò a truffare il casinò di Malta e per questo finì per parecchio tempo nel carcere dell’isola.

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