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Storie & Personaggi
02 Luglio 2024 - 06:18
Gli schianti delle bombe, le urla e il dolore, le sirene che sono una colonna sonora costante. Ma anche altri scenari nel mondo, dove la bellezza feroce della natura contrasta con i drammi di malattie, povertà, mortalità infantile. Ci sono uomini e donne che attraversano questi luoghi mossi dal proprio lavoro che pare missione. Sono volontari, sono medici, sono infermieri. C'è chi porta le proprie mani e il proprio cuore, c'è chi porta la propria professionalità. Sono storie da raccontare.
Tra loro c'è Martina Marchiò, infermiera di 32 anni, di Rivarolo Canavese, che da 10 collabora con Medici Senza Frontiere e che ha appena concluso una missione come coordinatrice medica nella Striscia di Gaza, ma al suo attivo ha anche missioni in Africa, per la campagna vaccinale in Congo, o l'emergenza siccità in Somalia, i campi rifugiati in Grecia e un centro migranti in Sicilia.
A Gaza, come racconta a un sito locale canavesano, è rimasta sei settimane, come coordinatrice. «Quando sono arrivata, l’invasione via terra di Rafah non era ancora iniziata, anche se non era una situazione tranquilla a causa di bombardamenti e esplosioni giorno e notte. Il peggio è iniziato quando il 6 maggio è arrivato il primo ordine di evacuazione per alcuni blocchi della città di Rafah, segnando l’inizio dell’invasione via terra. Più di 800mila persone si sono spostate nelle zone indicate come sicure. Poi tutto è degenerato e ora non c’è più un luogo sicuro e la popolazione è vittima di attacchi anche nelle zone designate come safe. I civili sono schiacciati su più fronti da pesanti attacchi via terra e via cielo, sia lato Rafah che nella zona di Deir-al-Balah e nella zona nord della Striscia, che rimane praticamente inaccessibile. Anche la zona della spiaggia, dove le persone erano state invitate a rifugiarsi, è stata attaccata. Tantissimi anche gli attacchi nella zona centrale, soprattutto nell’area di Nuseirat, come si è visto qualche settimana fa con il pesante attacco costato la vita a centinaia di persone».
La divisa di Medici Senza Frontiere, così come l'insegna della Croce Rossa o qualunque altro distintivo, non ripara dalla guerra, non distingue tra chi corre per aiutare e chi è bersaglio. Cosa dà la forza a un operatore come Martina? «È dura. Sicuramente non è facile per noi operatori umanitari. Gaza è un conflitto diverso da tutti quelli che ho visto negli ultimi otto anni. È difficile accettare di non sentirsi mai veramente al sicuro, è difficile non poter mai staccare il cervello perché giorno e notte si continuano a sentire i droni e le esplosioni, missili, bombardamenti… Difficile vedere queste persone che non hanno più una via di fuga e non sanno dove rifugiarsi. Una volta tornati ci si porta dietro grande dolore, senso di impotenza e di colpa per aver avuto la possibilità di tornare a casa. Non c’è una ricetta magica per affrontare queste situazioni, siamo umani quindi cerchiamo di rimanere lucidi e fare il nostro lavoro ma ci sono momenti duri».
Viene voglia di pensare di scappare, che tutto è troppo. «Molte volte noi siamo lì sul campo e con quella maglietta ci sentiamo dei supereroi ma non è così, bisogna sempre svegliarsi umili tutte le mattine. Dobbiamo ricordarci chi siamo davvero, che non siamo Dio e a lui non possiamo sostituirci, che le cose possono succedere e la morte può arrivare e tu puoi non essere pronto ad accettarlo» ha detto, tempo fa a Nurse.it.
E poi, il ritorno a casa. «Non è facile, ci si sente disconnessi. Sono esausta. Ci vorrà tempo per metabolizzare tutto quello che ho vissuto e non è semplice essere qui considerata la situazione a Gaza. Il valico di Rafah è ancora chiuso e non c’è maniera per gli aiuti umanitari di entrare. Le organizzazioni umanitarie sono in difficoltà: i medicinali scarseggiano. Manca il combustibile che serve per far funzionare i generatori degli ospedali. Poi c’è tutta la questione del cibo e dell’acqua per la popolazione. È dura essere qui sapendo che la situazione peggiora ogni giorno».
A Gaza, come in Africa, come negli altri luoghi dove è stata e dove tornerà. Perché se questa scelta parte con il desiderio di rendersi utili, poi diventa qualcosa oltre la buona volontà, l'animo generoso: diventa il proprio mestiere nel mondo, per il mondo, retribuito, spiegano da MSF, secondo "una griglia salariale internazionale" - le stime specialistiche dicono che gli stipendi, non solo degli operatori all'estero, delle ong di questo tipo sono il 18% inferiori alla media professionale, cui si aggiunge una diaria per vitto e alloggio (in camerate condivise, spesso, o tende) e la copertura assicurativa internazionale.
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