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IL PERSONAGGIO

Dalla Granda a Roma Giovanni Giolitti , l’erede di Cavour

Fu il massimo politico dell’Italia a cavallo tra i due secoli

Dalla Granda a Roma Giovanni Giolitti , l’erede di Cavour

Giovanni Giolitti

«Sono nato il 27 ottobre 1842 a Mondovì, dove mio padre, Giovenale, teneva il posto di Cancelliere di quel Tribunale, e dove morì un anno appena dopo la mia nascita, di una polmonite presa in una gita in montagna». Chi narra è Giovanni Giolitti, lo statista che maggiormente influenzò la politica italiana in quella che non a caso fu definita «l’età giolittiana». Fu il massimo politico dell’Italia a cavallo tra i due secoli. Figlio della provincia Granda, studiò a Torino e frequentò l’università negli anni del Risorgimento.

Torino era una città magica, in quegli anni, si potevano fare incredibili incontri: «Vidi spesso il Cavour ed ascoltai i suoi discorsi alla Camera, ma non ebbi rapporti con lui», raccontò Giolitti nelle sue memorie; non ebbe rapporti diretti con lui, ma lo zio paterno, Melchiorre, era suo amico e azionista del giornale di Cavour, Il Risorgimento. Insomma, la politica era di casa, dai Giolitti. «Ai primi di febbraio del 1862 fui chiamato, con niente meno che il grado altissimo di «aspirante al volontariato» nel Ministero di Grazia e Giustizia dall’allora ministro Miglietti».


Nel 1891 divenne primo ministro, dopo la disfatta del governo di Crispi in seguito ad una proposta di inasprimento fiscale. Fu un governo breve, che rassegnò le dimissioni già nel 1893; ma i successivi governi (1901-1905; 1906-1909, 1911-1914 e 1920-1921) di fatto lo resero il vero deus ex machina dell’Italia di inizio secolo. L’età da lui inaugurata si contraddistinse per una notevole crescita economica e sociale, in quella Belle Époque che fu la dorata conclusione dell’autunno europeo. Secondo Giolitti, «il Governo ha due doveri, quello di mantenere l’ordine pubblico a qualunque costo ed in qualunque occasione, e quello di garantire nel modo il più assoluto la libertà di lavoro».

E, durante tutto il suo governo, egli interpretò la missione di governo mantenendo l’ordine con severità ma anche dialogando con il mondo operaio. Accusato di trasformismo e di ambivalenza, oscillante tra progressismo e conservatorismo – al punto da essere soprannominato «Giano bifronte» - Giolitti seppe comunque portare buoni risultati al paese: nei suoi anni d’oro portò l’Italia ad avere una moneta forte. Era partita la macchina industriale italiana, che nel settore dell’automobile aveva il suo traino: Torino, negli anni di Giolitti, si disseminò di ciminiere. Ma non solo Torino.

Durante l’età Giolittiana, l’Italia progredì rapidamente e soprattutto al Nord (mentre i disagi del Sud si accentuarono). Le città di Torino, Milano e Genova, da sole trainavano l’economia nazionale. L’aumento degli impiegati nelle fabbriche portò un incremento delle rivendicazioni sociali. Giolitti non voleva scontri con gli operai; fu conciliante nei loro confronti e, pur essendo un uomo di destra, aprì più volte ai socialisti e non limitò mai gli scioperi.

Concesse il suffragio universale maschile (1913) e aprì anche ai cattolici, siglando il Patto Gentiloni, che permise l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica. Lo statista cuneese si spese per l’introduzione del suffragio universale maschile (1912) per tutti i cittadini maggiori di 30 anni, e al contempo spinse per la prosecuzione dell’avventura coloniale; con l’intervento in Libia registrò da una parte le accese acclamazioni dei nazionalisti, dall’altra le critiche dei socialisti che lo accusavano di aver innescato una guerra per conquistare «uno scatolone di sabbia».

Con l’avvento del Fascismo, Giolitti si ritirò dalla politica: morì nel 1928 nella sua villa di Cavour, poco dopo l’1.30 di notte. Morì logorato dalla febbre, ma spirò sereno: si era preparato spiritualmente, si sentiva sereno per la sua anima; semmai, aveva il rammarico per la piega sempre più autoritaria presa dagli avvenimenti in Italia; egli, per non dichiararsi pubblicamente sostenitore del fascismo, aveva abbandonato la politica. L’avversione al fascismo lo fece interpretare come un dinosauro, come un vecchiaccio legato al passato; al “suo” passato. Perché l’età di Giolitti era ormai superata dall’età di Mussolini.

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