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Al cinema
15 Settembre 2024 - 11:17
Limonov, il film. Con un cammeo di Carrere. 2 ore e 18 minuti dei quali buona parte girate con una camera a spalla. Praticamente esci dalla sala e chiedi al personale se ti possono portare dell’Alka Seltzer in cabina, convinto di essere stato per tutto il tempo su un traghetto di basso tonnellaggio. In preda al mal di mare.
Caotico, a tratti lentissimo, volume spropositato, voce del doppiatore del protagonista da narcosi immediata (mono-tono, dall’inizio alla fine). Lo vedi, entri con l’innocenza di un bambino (lo ammetto, non avendo ancora nemmeno letto l’omonimo romanzo dello scrittore francese tra quelli che amo di più, l’altro è Houellebecq) e assisti alla riproposizione di una biografia, scenograficamente quasi perfetta (gli interni della Karkiv dalla quale muove il nostro tali e quali a quelli che le scene dei telegiornali ci portano in casa ogni giorno). La dura realtà delle “avanguardie letterarie” in quella parte di Europa nella quale arrivavano ovattate, sfidando la cortina di ferro, le note i sussurri i fermenti come bagaglio a mano delle canzoni dei vari Lou Reed che all’epoca imperversavano in Occidente.
Poi l’esilio. Le caustiche affermazioni su quelli (supposti) “dorati” di altri storici scrittori dissidenti. L’America, New York una sorta di luna park che abbacina, agli occhi di un ragazzo che viene via dalla Russia di quegli anni, e che fa presto, insieme, ad inghiottirlo nel suoi vortici di eccessi e a lasciarsi sedurre, insieme alla donna (“non è per te” l’inutile tentativo di dissuaderlo di un amico) per la quale perde letteralmente la testa.
Poi, cambio quadro, quasi sembra un altro, stavolta nei panni di un maggiordomo al servizio di un ricco imprenditore americano, la comparsata di Evtuscenko, in un succedersi di eventi, suoni (sempre mal calibrati) fuori decibel, cosi, inutilmente, quasi per il gusto fine a se stesso, oppure chissà necessariamente didascalico quasi a sottendere il gran casino che si mette in moto quando un aspirante scrittore di successo inizia a confondere la realtà letteraria con quella esistenziale, forse in ogni caso entrambe indistricabili, indecifrabili l’una all’altra.
Poi il ritorno in patria, in piena glasnost, la fama tanto inseguita e la noia, tradita, sottotraccia, che lo porta a chiedersi se ne sia valsa davvero la pena.
Da vedere, magari quando hai un pomeriggio libero, fuori piove e la temperatura è scesa sensibilmente, confidando nell’intelligenza del gestore nello spegnere l’aria condizionata in sala e possibilmente con della Xamamina a portata di mano. Meglio quella, in mano, che la macchina da presa.
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