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Fotografia
23 Maggio 2025 - 19:08
La fotografia mondiale perde uno dei suoi interpreti più profondi e umani. Sebastião Salgado, fotografo franco-brasiliano noto per i suoi straordinari scatti in bianco e nero, è morto a 81 anni a Parigi. Lo ha annunciato l’Accademia delle Belle Arti francese, di cui era membro dal 2016. “Grande testimone della condizione umana e dello stato del pianeta”, così lo ricordano i suoi confratelli.
Nato ad Aimorés, nello stato brasiliano di Minas Gerais, l’8 febbraio 1944, Salgado si era laureato in economia e statistica, lavorando anche per la International Coffee Organization. Ma nel 1973 scelse un’altra strada: lasciò la carriera istituzionale per dedicarsi totalmente alla fotografia, iniziando con l’agenzia Gamma e passando poi alla storica Magnum Photos nel 1979.
Fin dai primi progetti, Salgado ha fatto della fotografia uno strumento di denuncia e compassione. I suoi lavori – come Sahel: l’homme en détresse (1986), Other Americas, Workers, Terra – sono veri e propri affreschi dell’umanità dolente, spesso dimenticata: migranti, contadini senza terra, lavoratori sfruttati, vittime di disastri naturali o sociali.
Ma la sua forza non è mai stata quella della pietà: nelle sue immagini, potenti e composte con rigore classico, emergono la dignità, la resistenza, la bellezza del gesto umano, anche quando immerso nel dolore. Il suo stile inconfondibile in bianco e nero lo ha reso un maestro della luce e dell’intensità emotiva.
Il suo progetto forse più celebre resta "La mano dell’uomo" (Workers, 1993), realizzato in sei anni attraverso 26 paesi. È un’epopea visiva del lavoro manuale alle soglie dell’estinzione: dalle miniere d’oro in Brasile ai pozzi petroliferi del Golfo, dai cantieri navali all’estrazione del sale. Un omaggio alla fatica e all’identità dei lavoratori, che ha segnato la consacrazione definitiva di Salgado come fotografo del secolo.
Negli anni '90, Salgado avvia In cammino, un progetto sui grandi esodi del mondo contemporaneo. Visita 40 paesi, ma l’orrore del genocidio in Rwanda lo segna nel profondo: «Avevo perso la fede nell’uomo». Malato e psicologicamente provato, decide di ritirarsi. Torna nel suo Brasile e si dedica alla riforestazione dell’hacienda di famiglia: pianta più di due milioni di alberi, restituendo vita a un ecosistema cancellato.
Da quell’esperienza nasce Genesis, progetto titanico e poetico con cui Salgado si riconcilia con la fotografia e con il pianeta. Viaggia nei luoghi ancora incontaminati della Terra – deserti, ghiacciai, giungle – per celebrare la natura nella sua forma più pura. Le immagini di Genesis sono l’altra faccia del suo lavoro: se Workers e In cammino parlano dell’uomo, Genesis è un atto d’amore verso ciò che resta prima di lui.
Salgado ha ricevuto tutti i maggiori riconoscimenti internazionali: Eugene Smith Award, Oskar Barnack, Erich Salomon, la medaglia d’oro della Royal Photographic Society. Nel 1994 lascia Magnum e fonda a Parigi la sua agenzia, Amazonas Images, per gestire in modo indipendente il proprio lavoro.
La sua storia è stata immortalata nel documentario "Il sale della terra" (2014), firmato da Wim Wenders e dal figlio Juliano Ribeiro Salgado, un commovente ritratto della sua arte e della sua fragilità.
A differenza dei fotoreporter tradizionali, Salgado ha sempre evitato il tempo breve della notizia. La sua urgenza era un’altra: testimoniare l’essenziale, l’universale, anche quando il mondo non guardava. “Voglio fotografare quello che dura, non ciò che esplode”, diceva.
Con la sua morte si spegne una voce visiva che ha saputo raccontare la sofferenza senza retorica, la natura senza decorazione, il mondo senza confini. Un artista che non ha mai voluto rubare immagini, ma condividerle come dono.
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