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Lavoro & crisi
26 Maggio 2025 - 12:05
Un’indagine recente condotta dalla piattaforma di ricerca lavoro Resume Now, riportata anche dal New York Post, ha acceso i riflettori su un trend piuttosto curioso, ma sempre più diffuso: il “ghostworking”, ovvero la pratica di simulare attività lavorative per sembrare operosi, anche quando non lo si è davvero.
Secondo il rapporto, oltre il 58% degli intervistati ha ammesso di mettere in atto comportamenti che danno l’impressione di essere concentrati sul lavoro. Ma cosa fanno esattamente? Tra le tecniche più comuni ci sono la partecipazione a riunioni inesistenti, la digitazione di frasi prive di senso e persino l’uso del telefono per finte chiamate. L'obiettivo? Mantenere un'immagine di costante efficienza agli occhi di colleghi e superiori.
Alla base di questa tendenza ci sarebbero fattori legati allo stress professionale, all’incertezza sul futuro lavorativo e alla diffusione del lavoro da remoto, che ha contribuito a rendere sempre più labili i confini tra tempo libero e attività professionale.
Alcuni numeri emersi dall’analisi sono emblematici:
Il 23% dei “ghostworker” passeggia tra le scrivanie con un taccuino per sembrare impegnato.
Il 22% simula la scrittura al computer digitando parole prive di significato.
Il 15% mantiene una chiamata telefonica fittizia, tenendo il telefono all’orecchio senza parlare con nessuno.
Un altro 15% lascia file e fogli di calcolo aperti per dare l’idea di stare lavorando, mentre in realtà consulta siti non legati al lavoro.
Il 12% organizza riunioni di facciata, pianificate apposta per evitare incarichi reali.
Ma il dato forse più significativo riguarda il fatto che quasi un quarto degli intervistati utilizza il tempo d’ufficio per aggiornare il proprio curriculum (24%), inviare candidature (23%), o rispondere alle chiamate dei recruiter (20%). Non manca infine chi esce di soppiatto per sostenere colloqui altrove (19%).
Secondo gli esperti, questa forma di "disimpegno attivo" potrebbe essere affrontata con una riorganizzazione culturale del lavoro: dare più fiducia e autonomia ai dipendenti, piuttosto che monitorare solo la loro presenza o il tempo trascorso davanti allo schermo. Una dinamica non troppo lontana dal fenomeno del “TaskMasking”, criticato soprattutto tra i giovani della Generazione Z, ma che – a quanto pare – coinvolge lavoratori di ogni età.
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